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Rifugiati perché omosessuali

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Gli scorsi venerdì e sabato 25 e 26 novembre si è tenuta, in una splendida Palermo illuminata da un sole caldo che noi “ciucianebbia” lombardi ce lo sogniamo, un convegno organizzato da Rete Lenford – Avvocatura per i diritti Lgbt, l’associazione di avvocati che si occupa, per l’appunto, dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali.

Il convegno, dal titolo “La protezione internazionale per orientamento sessuale e identità di genere”, ha affrontato le problematiche connesse alla richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato avanzata da persone omosessuali e transessuali.

Su quasi 200 Stati che attualmente occupano la scena internazionale, 76 puniscono l’omosessualità con sanzioni molto severe, che vanno dalla reclusione (spessissimo accompagnata da violenze, soprusi e discriminazioni di ogni tipo) alla pena di morte (in vigore ancora oggi in 9 Stati). È di conseguenza nello stato delle cose che circa 10 mila persone domandino ogni anno rifugio sul territorio dell’Unione europea. Si tratta di persone perseguitate nel loro paese proprio perchè omosessuali.

Gli Stati occidentali, quelli nei quali vi è maggiore libertà, sono obbligati ad aprire loro le porte. Lo stabilisce la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 sullo stato di rifugiato, che quest’anno compie sessant’anni di vita.

Quello che ho capito dal convegno, che ha discusso, tra l’altro, i risultati di una ricerca condotta in ambito europeo sul tema (dal nome “Fleeing Homophobia“, cioé “Fuggire l’omofobia“) è che gruppi di studio in materie come queste sono non solo utili ma necessari. Perchè è importante che gli operatori del settore dell’immigrazione si rendano conto che in alcuni paesi essere omosessuali è una colpa che si paga con una vita da reclusi, anche all’interno della famiglia, dei luoghi di lavoro, della comunità.

E quanto sia utile parlarne lo si vede dal comportamento di alcuni giudici dell’immigrazione. In America, ad esempio, un giudice ha negato il riconoscimento dello status di rifugiato a un ragazzo serbo che era stato picchiato e seviziato dalla polizia in più occasioni. La ragione del rifiuto: non è effemminato, quindi non è vero che è gay. In un altro caso, un giudice (australiano) aveva negato lo stato di rifugiata a una donna cinese che era stata cacciata dalla casa in cui conviveva con la sua compagna. Motivo? La donna aveva violato i suoi doveri sociali e familiari scegliendo di andare a vivere con un’altra donna. Una serie di sentenze, poi, impongono ai ricorrenti un obbligo di discrezione: nella misura in cui si resta nascosti, non vi è il rischio di essere perseguitati.

In verità, esiste un diritto fondamentale ad essere se stessi e a dichiararsi, nonché un diritto fondamentale di vivere liberamente la propria condizione di coppia. Chi si vede limitati questi diritti può definirsi un “perseguitato” e quindi dovrà essere accolto nei Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra, indipendentemente dal fatto che si possa restare nascosti o meno.

Che piaccia oppure no, la civiltà umana si distingue, oggi, per l’attenzione che rivolge alla persona. È la civiltà del diritto contro l’inciviltà della violenza, della persecuzione, della discriminazione e del sopruso.

E’ tempo per tutti noi di decidere da quale parte stare.

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