Un reportage disegnato. Così, quasi mestamente, recita un piccolo occhiello nella copertina di Quaderni russi. La guerra dimenticata nel Caucaso, il nuovo lavoro di Igort che arriva nelle librerie in questi giorni (Mondadori). Mestamente perché, qualora ce ne fosse bisogno, Igort dà corpo e sostanza a quella che è ormai una realtà: le graphic novel sono veri libri. Ci troviamo di fronte a una testimonianza vivida e lucidissima che, meglio di tanti studi seri e blasonati, riesce non soltanto a restituire ma anche a far vivere empaticamente lo scenario oggetto dello sguardo dell’autore.

Graphic novel è soltanto la forma. I disegni non tolgono nulla, anzi: aggiungono una palpabilità emotiva, integrano le parole e tratteggiano i visi e i corpi, gli scenari rarefatti che il linguaggio non sempre riesce a cogliere e a “far vedere” al lettore. Igort mette in scena “le cose stesse”, come avrebbero detto i filosofi d’un tempo. Cioè la realtà.

Quella sporca, bast…, che conosci perché tutti ne parlano, ma che quando ce l’hai sotto gli occhi ti fa inc… come se non ne sapessi nulla e per la prima volta ti sbattono in faccia un’atroce verità. È la verità della Russia di oggi, quella della corruzione, delle torture e dell’omicidio di Anna Politkovskaja, della sporca questione della guerra in Cecenia, di Beslan e dei gas usati al teatro Dubrovka di Mosca.

Quaderni russi racconta tutto questo. Igort parte da un ascensore, quello che avrebbe portato al piano del suo appartamento Anna Politkovskaja, al numero 6 di Lesnaja Uliza di Mosca. Lì fu trovata assassinata il 7 ottobre 2006. Tre anni dopo Igort entra in quell’ascensore, oggi rozzamente dipinto alle pareti di fregi natalizi – e non si può far a meno di pensare alle macchie di sangue che nasconde.

Da lì nasce quel racconto che è più d’un reportage. Igort ha passato quasi due anni fra Ucraina, Russia e Siberia per capire cos’era stata l’Unione Sovietica e cosa, oggi, è diventata quella terra. E lo ha capito sin troppo bene. Si è scontrato con tutto quanto ci racconta: ha incontrato gente, ha inseguito storie, con la stessa attitudine che era stata, appunto, quella della Politkovskaja, ovvero non un cinico distacco da giornalista che deve semplicemente e solo raccontare ciò che vede e sa. No: il racconto è un’umanissima partecipazione a ciò che è, un voler stare da una parte, dalla parte di coloro che non si accontentano delle verità preconfezionate distribuite come veline d’apparato.

Questo è costato la vita ad Anna, perché ha raccontato quello che i politologi descrivono con un neologismo, democratura: ovvero un regime autoritario e dispotico mascherato da curiali vesti democratiche. Con il suo libro Igort le rende omaggio come meglio non si poteva, perché ne raccoglie l’eredità che è il senso della memoria, «quello che ci consente di non chiudere gli occhi, di non voltare la testa dall’altra parte». Quello che semplicemente ci rende umani.

Perché, come scriveva Anna, non siamo funghi: «Vedo che le persone vogliono cambiare la propria vita per il meglio, ma non sono in grado di farlo. E per darsi un contegno seguitano a mentire a se stesse. Per il mio sistema di valori questa è la posizione del fungo, che si nasconde sotto la foglia. Lo troveranno comunque, è praticamente certo, lo coglieranno e mangeranno. Per questo, se si è nati umani, non bisogna comportarsi da funghi».

Articolo Precedente

Una fiammella di speranza

next
Articolo Successivo

Spaesato tra le donne

next