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Siria, continuano le proteste. Più di 1300
le vittime dall’inizio della rivolta

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I cittadini di Hama, nella Siria centrale, continuano a protestare contro il governo, nonostante la minacciosa presenza dell’esercito alle porte della città. Non è bastata a far fermare le proteste l’interruzione dell’elettricità, che ha lasciato la città al buio. E non è bastata nemmeno la rimozione di Ahmad Khaled Abdel Aziz, governatore di Hama, decisa dal presidente siriano Bashar Assad sabato 2 luglio, dopo le più massicce manifestazioni anti-regime che si siano svolte finora in Siria.

Venerdì, dopo le preghiere, decine di migliaia, forse centinaia di migliaia di persone hanno riempito le strade di Hama lanciando slogan contro il regime siriano. Anche si siti dei gruppi dissidenti dicono che è stata la più massiccia manifestazione di protesta da quando la Primavera araba ha iniziato a scuotere anche la Siria, lo scorso 15 marzo. La risposta del regime è stata il solito copione di minacce e repressione, che ha lasciato sul terreno almeno 24 persone uccise dall’intervento delle forze di sicurezza. Dall’inizio delle manifestazioni, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, almeno 1350 persone sono state uccise da esercito e polizia, mentre oltre 10mila sarebbero le persone arrestate.

Le proteste di venerdì 2 luglio hanno fatto fare un salto di qualità alla mobilitazione antigovernativa in Siria, che finora aveva riguardato soprattutto città delle zone di confine e centri meno importanti, con manifestazioni molto determinate, ma senza la partecipazione massiccia che si era vista in piazza Tahrir al Cairo o sul Boulevard Ben Bourghiba a Tunisi.

Il presidente siriano, dopo la rimozione del governatore di Hama, colpevole di non essere riuscito a impedire le manifestazioni, ha ordinato all’esercito di prendere posizione dentro e attorno alla città, la quarta per importanza nel paese con una popolazione di quasi 700mila abitanti. Domenica i carri armati e i veicoli blindati dell’esercito si sono piazzati a presidiare i quartieri periferici della città, dove la polizia politica, secondo il racconto di alcuni testimoni rilanciato dall’Agence France Presse, avrebbe compiuto alcune decine di arresti di attivisti.

Un altro testimone, citato dalla Reuters, racconta di manifestazioni che sono andate avanti anche nella notte tra domenica e lunedì, con gli abitanti di Hama in strada per impedire all’esercito di avanzare verso il centro della città. A quanto pare – ma verificare è impossibile visto che le autorità siriane impediscono ai giornalisti l’ingresso nel paese – sarebbero attive anche squadre di uomini armati fedeli al presidente Assad.

Non è la prima volta che Hama si solleva contro gli Assad. Nel 1982 una massiccia rivolta guidata dai Fratelli Musulmani (l’organizzazione è illegale in Siria) venne repressa nel sangue da Hafez Assad, padre di Bashar, dopo settimane di combattimenti costati la vita ad almeno 20mila persone.

Secondo le ultime notizie diffuse dall’emittente panaraba Al Jazeera, lunedì mattina i tank e i blindati dell’esercito avrebbero lasciato i quartieri presidiati negli ultimi due giorni e si sarebbero diretti verso nord. Non è chiaro se sia una manovra per entrare nella città da un altro versante o se invece siano in arrivo nuovi reparti per completare l’accerchiamento.

Quello che è chiaro, invece, è che il quinto mese di proteste in Siria è iniziato con una nuova, imponente sfida al regime di Assad. Il segretario di stato americano Hillary Clinton, venerdì, ha ripetuto che «il tempo sta per scadere» per Assad, invitato ancora una volta a rispondere con riforme convincenti alle richieste di democrazia dei suoi cittadini. E la scorsa settimana, per la prima volta, alcuni tra i più importanti dissidenti storici si sono riuniti a Damasco per cercare di costruire un’alleanza credibile che possa portare alla creazione di un governo alternativo a quello ufficiale, sul modello libico. In vista, forse, di un più deciso intervento della comunità internazionale, impegnata per il momento a definire i contenuti di una risoluzione Onu sempre meno rinviabile nonostante il freno tirato da Pechino e Mosca.

di Joseph Zarlingo

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