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Un autore ha il diritto di eliminare una voce?

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Ormai lo sanno tutti: l’Autorità garante per le comunicazioni sta per adottare un regolamento che consente la rimozione di siti, pagine web e più in generale contenuti online che, a suo parere, violano il diritto d’autore. Ma davvero l’autore ha il diritto di mettere a tacere la voce di qualcuno e cancellarne il punto di vista?

“I mediocri imitano, ma solo i grandi copiano”, rispondeva Picasso a chi lo accusava di plagio. Che a sua volta riadattava una frase di T. S. Eliot secondo cui “i poeti immaturi imitano, quelli maturi rubano”. O forse era Eliot a plagiare Picasso, vallo a capire. E chissà se Emil Cioran, quando scriveva che “le opere sono fatte con sprazzi di imitazione, brividi appresi ed estasi plagiate”, riprendeva un pensiero di Benedetto Croce, che cinquant’anni prima aveva osservato come sempre “gli scrittori, gli artisti e i pensatori” si riattacchino “all’arte e al pensiero precedente, svolgendolo e variandolo”.

Il punto è che, come tutti i platonici sanno, l’arte è essa stessa imitazione dell’imitazione e nessun artista sano di mente, per quanto affetto da disturbo narcisistico della personalità, potrà mai fregiarsi del termine di creatore, ma solo di quello, assai più gestibile, di compositore (letteralmente colui che mette assieme, quando è bravo in modo nuovo, elementi già esistenti). La paternità dell’opera (e la scelta della parola paternità al posto di maternità indica la consapevolezza che l’opera non può che svilupparsi nel grembo di qualcun altro o qualcos’altro) consiste solo nell’aver materializzato un punto di vista: il punto di vista dell’artista.

Ognuno ha diritto ad avere un punto di vista: emanazione diretta del diritto inalienabile all’esistenza e alla libertà. E naturalmente non può essere proibito avere un punto di vista analogo o perfino identico a quello di un altro, poiché equivarrebbe a vietare di poterla pensare allo stesso modo o di poter provare le stesse emozioni. Inoltre, non può essere vietata a nessuno la riproduzione dell’esistente, poiché essa coincide con l’espressione materiale del proprio punto di vista. E l’arte fa parte dell’esistente.

Internet non mette in discussione l’autorialità ma i vincoli alla sua riproduzione. Quando riproduco, riutilizzo, cito o comunque diffondo il pensiero o l’opera di un artista, non ne intacco certo la paternità artistica, ma ne rivendico, in un certo senso, la comune maternità o fraternità. Se l’artista infatti è padre, la natura è madre (e chi può dirsi estraneo alla natura?); e anche nei casi in cui si obiettasse (negligentemente) che madre è il pensiero o la storia del pensiero, chi, pur in differente misura, non ne ha partecipato e ne partecipa, chi non ne è fratello o sorella?

La verità è che internet è la nuova, grande utopia e sorprende che in pochi si siano finora soffermati sull’incredibile circostanza che lo è anche letteralmente. In questo meraviglioso non-luogo si sta avverando la profezia di Paul Valéry, secondo cui grazie alla tecnologia un giorno l’arte e il pensiero avrebbero goduto del dono dell’ubiquità conferendo, democraticamente, a ciascuno un nuovo “potere di azione sulle cose”. Questo però sta provocando un terremoto, perché stanno venendo meno le condizioni che consentono un facile sfruttamento commerciale dell’ingegno umano. A tremare sono le tradizionali centrali del controllo socio-economico, che non gradiscono un simile potere di azione in mano a chiunque lo desideri.

Del resto ben prima della nascita di internet Walter Benjamin aveva intuito che la facile riproduzione dell’arte e del pensiero avrebbero finito per eliminare “un certo numero di concetti tradizionali – quali i concetti di creatività e di genialità, di valore eterno e di mistero” che nella storia hanno sempre condotto “a un’elaborazione in senso fascista” delle opere dell’ingegno umano. Sì, ha scritto proprio così. “In senso fascista”. Devo aggiungere altro?

Qui se ne parla: #nowebcensure

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