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Di cosa è fatto un lavoro? E uno sciopero?

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Il prossimo 6 maggio si terrà lo sciopero generale convocato dalla Cgil per protestare contro l'(in)azione del Governo in tema di occupazione, welfare, fisco, istruzione.

Non si può dire che lo sciopero appartenga alla mia storia personale di precaria, forse in generale non appartiene alla mia generazione e neanche ai tanti che il precariato lo hanno conosciuto quando ancora non era materia di dibattito comune. Però questo sciopero generale è stato chiesto lungo tutto l’autunno e l’inverno e mi sembra la giusta conclusione di un percorso che ha visto in piazza gli studenti, i lavoratori della scuola, gli operai, le donne, i comitati per l’acqua pubblica e contro il nucleare, i cittadini in difesa della costituzione, i precari. Un’occasione per una ricomposizione delle lotte.
Ancora una volta, però, è stato pensato senza considerare tutta una parte di lavoratori che al diritto di sciopero non ha accesso, almeno nella sua forma tradizionale.

Con le altre Diversamente occupate, ci chiediamo: Che significa per noi scioperare? Bloccare una produzione, un servizio? Disertare un luogo? O dare riconoscibilità di quel blocco e di quell’assenza? E quando si lavora da casa e non si ha un luogo da boicottare, una scrivania da abbandonare agli occhi di qualcuno che possa vederla vuota?

Immaginiamo che una precaria scioperi per un giorno. Nel mio caso la testata n. 1 avrebbe qualche articolo in meno, la testata n. 2 ne avrebbe almeno uno in meno, eppure non so dire se la mia assenza sarebbe codificata come sciopero, innanzitutto perché non si salda nello stesso luogo all’assenza di altre e altri che insieme a me lo disertano. Inoltre probabilmente le mie colleghe sopperirebbero alla mia mancanza lavorando ciascuna un po’ di più.

Il vuoto non si percepisce. Ma il lavoro non è riducibile ad un articolo mancante, ad un’ora di buco per una classe, a un assistente in meno per un anziano, a un centinaio di telefonate non partite da un call center.

Eppure mancherebbe qualcosa. La collega alla mia destra non avrebbe chi le suggerisca come scrivere una lettera formale, né la collega a sinistra potrebbe chiedermi di rileggere il suo articolo.
Niente opera di conciliazione sulle tensioni interne all’ufficio, niente suggerimenti al mio capo sotto pressione, niente aggiornamenti per le colleghe che lavorano da remoto, niente aiuto a chi non riesca a tradurre un’espressione in lingua inglese. Niente di tutto quel lavoro invisibile che al lavoro portiamo e che non sta nel contratto, né in busta paga: corpi, talenti, relazioni, entusiasmi.

Al lavoro ci stiamo tutte intere e tutti interi. I nostri diritti non possono essere ridotti al compenso per l’articolo scritto o per le singole ore di lavoro prestato o alle provvigioni sui contratti conclusi, semplicemente perché non siamo macchinari sul cui utilizzo le aziende possano accordarsi, puntando al ribasso il prezzo da pagare per ogni ora d’uso, senza alcun onere quando sono spenti. Noi non siamo mai spente.

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