A Olivier Père, neo direttore del Festival di Locarno, piacciono gli zombie: siamo già a quota due in tre giorni. Ma dopo quello gay e salvifico di Bruce Labruce, si torna alla tradizione. Nel solco tracciato da Gorge A. Romero, gli zombie di Rammbock, del tedesco Marvin Kren, sono cattivissimi e letali. Infettati da un virus sconosciuto, torme di berlinesi trasformati in morti viventi azzannano chiunque capiti loro a tiro trasformandoli in altrettanti mostri assetati di sangue. Fin qui tutto regolare. È l’eroe del film, invece, a discostarsi dalla tradizione. Michael è un goffo e attonito ragazzone che sì, combatte, o meglio si difende, dagli assalti di quel branco di sciamannati dentuti che assediano il palazzo in cui si è barricato con altri sopravvissuti. Ma avendo costantemente in testa altro, e cioè Gabi, la ragazza con la quale ha vissuto per sei anni e che un giorno, senza spiegazioni, l’ha cacciato di casa. Michael è tornato in quel palazzo proprio per riportarle le chiavi, ma lei non c’è. C’è invece un ragazzino sveglio, Harper, apprendista idraulico, che si rivelerà utilissimo nella lotta agli zombie. Ai quali (sarà il messaggio del film?) si può resistere solo a patto di mantenere la calma assoluta. Difficile quando vieni aggredito da mostri urlanti e sbavanti sangue, a meno di non ingerire massicce dosi di tranquillanti: altro che paletti e pallottole d’argento, contro il logorio del vampiro moderno ci vuole il Valium. Riuscirà il buon Michael a ritrovare Gabi e a ridarle le chiavi «di persona» come si ripromette all’inizio del film in un esilarante dialogo di prova con un amico? L’happy end c’è, anche se non è esattamente quello che ci si aspetterebbe. In compenso ci si diverte parecchio grazie alle molte trovate, ai dialoghi intelligenti e alla maschera formidabile di Michael Fuit.

Altre pillole, questa volta venefiche, sono invece quelle che stroncarono la carriera di Hugo Koblet, eroe nazionale svizzero che negli anni Cinquanta e Sessanta divenne celebre fra i suoi concittadini quasi quanto Guglielmo Tell. Molti fra gli ultrasessantenni sessantenni d’oggi lo ricorderà anche in Italia: Koblet fu infatti il primo straniero a vincere, nel 1950, il giro d’Italia. Era contemporaneo di Coppi e Bartali, ma molto più sexy di loro. Biondo, occhi cerulei, charmant, Koblet fu molto amato dalle donne e molto invidiato dagli altri atleti che non possedevano la sua leggerezza nel macinare chilometri su chilometri e far battere il cuore a stuoli di aspiranti Miss tappa. Il film è una docufiction che manderà in estasi gli svizzeri ma commuoverà anche gli italiani: frammisti alla ricostruzione cinematografica (Koblet è un somigliantissimo Manuel Löwensberg ) e alle interviste con i compagni di squadra e rivali di allora, molti sono gli spezzoni di filmati d’epoca tratti da diverse edizioni del Giro d’Italia: fotogrammi in bianco e nero che mostrano le facce, il sudore, la fatica di atleti nei quali si riconosceva una generazione, quella della ricostruzione.

RAMMBOCK, di Marvin Kren, con Michael Fuith, Theo Trebs, Brigitte Kren

HUGO KOBLET-PEDALEUR DE CHARME, di Daniel Von Aarburg

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