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Tipico che?

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Tipico su, tipico giù… tipico qua, tipico là. Come il Figaro mozartiano, tutti lo chiedono, tutti lo vogliono… e soprattutto, il “tipico”, lo vuole la Lega nord ammantata di retorica localistica. Ma riflettiamo: cosa vuol dire “tipico”? Tutto e niente. Il prodotto locale, così come certi ristorante d’antan, il costume del posto, il tal detto, la tale usanza, cioè tutto ciò che si riferisce al passato, oggi diventa automaticamente tipico. Ma siamo sicuri che nel passato ci sia quell’autenticità a cui il tipico allude?

La “tipicità” è una categoria rassicurante ma subdola, ingannevole, e soprattutto ideologica. Si richiama a un’identità ascritta nel territorio, come se tutto derivasse da un seme innato nei luoghi che, germogliando, si riproduce sempre uguale a sé stesso. Tipico, così come puro (altra parola odiosa), autoctono e originale sono concetti che provengono da una matrice vagamente creazionista e tendono a farci credere che le cose, come le identità (ecco la parola che piace tanto ai leghisti), rimangano sempre uguali a sé stesse. Sarebbe meglio ragionare in termini di “tradizione”, concetto che al contrario prevede uno sviluppo (dunque è di matrice evoluzionistica), e di cui parleremo prossimamente.

La cucina tipica, con buona pace delle migliaia di ristoranti che la propongono, non esiste nella forma proposta. Il mais (la polenta) si è diffusa sulle Alpi tre secoli e mezzo fa, il pomodoro Pachino non cresce da sempre sulle coste orientali della Sicilia, ma deriva da un incrocio ottenuto 60 anni fa in Israele, e le “tipiche” vongole veraci del Delta del Po sono arrivate dalle Filippine nel 1989. In realtà ogni cosa “tipica” è uno stereotipo, un prodotto di marketing: la cucina povera dei contadini che un tempo tutto recuperava oggi – assai variata – viene offerta a prezzi salati nei ristoranti alla moda. Ma la cucina tipica è tanto buona. Oh che bel vivere, ho che bel piacere. Tipico? Son qua!

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