Fu a Londra che Gigi Proietti vide per la prima volta Edmund Kean, scritto da Raymond FitzSimmons e messo in scena da Ben Kingsley. Un monologo da istrione, camicia bianca, pantaloni neri per l’attore e una cassapanca in scena lo avvicinavano stranamente a A me gli occhi, please. Così Proietti decise di adattarlo in versione italiana. Il debutto assoluto nell’89 a Taormina. L’anno scorso, dopo anni di sola direzione artistica per far crescere il teatro senza l’orpello della sua fama, è stato il testo che lo ha accompagnato per la sua prima volta sul palcoscenico del Globe Theatre di Roma.

Dal 7 luglio, l’alterego inglese di Proietti ha ricominciato i suoi racconti sullo stesso palco, stavolta ornato di tappeti incrociati, una toilette da trucco e costumi di scena. Entrati in quel cerchio di legno nel cuore di Villa Borghese si fa sempre un viaggio nel tempo. Le balconate confinano con il cielo e il suo imbrunire. L’atmosfera che si respira immerge in una dimensione teatrale senza età.

La luna che spunta alta oltre le tettoie non è scenografica, ma reale. Lo stesso astro dai tempi di Shakespeare. E da quelli di Kean. Il monologo apre al pubblico la storia di un attore rivoluzionario per la sua epoca. Uno stile naturalista che frugava tra le fronde del vero contro un lirismo antico e aulico destinato a non sfondare più la quarta parete. Siamo nell’età Georgiana, quella segnata dalla follia di re Giorgio III e precedente l’epoca Vittoriana. Proietti-Kean, mantellaccio e stivali, divora il palco narrandoci ascese e declini, le alterne fortune al teatro Drury Lane, la nemesi tragicomica dell’Arlecchino.

Tutto con energia matura che potenzia la parola con un corpo d’attore implosivo e contaminante. Il maestro romano non è vulcanico come un tempo, la testa è d’argento, ma se l’età fosse un ciclo stagionale, potremmo dire che il valore della sua arte muta potente, pur restando fedele a sé stessa in un autunno di colori espressivi definiti e diversi, a volte contrastanti, giustapposti ad arte in un’interpretazione armonica di qualità radicata nel profondo. Al nostro profondo Proietti punta quando carpisce ogni senso dello spettatore con il potere della parola, dell’affabulazione più pura.

Kean cita Riccardo III per compiangersi e compiacersi, il cavallo di battaglia torna con quella corona che spesso lo arma contro il peso dell’insuccesso e le fatiche della vita. “Puttane e brandy” sono il suo rimedio contro ogni problema, il gomito si alza spesso anche sul palco. Tonico che rinfresca la battuta trascinate quanto purga a spazzar via le sofferenze. Si sorride spesso con Proietti, ma si resta anche annichiliti in una maestosa bolla temporale di un’epoca che non c’è più. Poi a un tratto lui la buca lasciandoci cadere nell’oblio depresso del suo attore inglese. Ma saldo ci riprende in braccio, forte e gentile, riportandoci a quei tappeti incrociati sul palco, tra rivelazioni familiari sconcertanti e racconti di fame nei teatrini di provincia.

La sua nemesi è Kemble, attore pomposo che mette alla berlina con imitazioni e compendi di recitazione per il pubblico. Oltre a Riccardo III sono Shylock, Macbeth e Otello i suoi migliori amici, complici e amanti nell’arte. Fuga dalle scritturazioni, rifugio nell’alcol e poi Arlecchino, l’odiato ruolo, rappresentano la follia dell’attore, la creatività che come miracolosa erba di montagna si ostina a crescere in condizioni estreme, rare, quasi impossibili. Una di quelle condizioni era diventare “monarca del teatro”. Come dire, non il potere di salire sul palco, ma quello di segnarlo con la propria arte possedendo il pubblico e annientando ogni diatriba tra attori e impresari.

Frank Rich nell’83 scriveva sul New York Times che il personaggio Kingsley era più grande di quello del testo. Soppesare anche la carriera di Proietti in un confronto con Edmund Kean sarebbe ancora più complesso. Sicuramente è magico il filo che lega grandi personalità sui palchi del mondo attraverso le epoche, a dispetto di latitudini e tecnologie. Oggi una vecchia replica del Kean di Proietti si può trovare anche su YouTube. Secolo scorso, immortalità elettronica. Lo spettacolo del Globe invece è attuale, vibrante e vorticoso. Anche il pipistrello che girovagava alla prima. Tra il buio lunare della sala e le colonne del palcoscenico, presenza gotica di una Roma estiva mentre Proietti si sbracciava, voce variopinta e corpo elegantissimo prima della naturale standing ovation. E lui, sciolto dal ruolo faticoso e sublime, a salutarci emozionato e a ringraziare quasi commosso Sergio Mattarella per la sua presenza. Non ci sarà nelle prossime repliche il Presidente, ma Proietti sì. Fino al 16 luglio, poi in cartellone oltre ai classici Enrico V di Daniele Pecci, Sogno di una notte di mezza estate, Il Mercante di Venezia, Macbeth altre pièce collaterali al Bardo. Come appunto Edmund Kean.

 

 

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