Mentre il 2016 giunge al capolinea, forse varrebbe la pena riflettere sugli esiti di quello che è stato l’avvenimento politico più clamoroso e significativo dell’anno: il referendum del 4 dicembre. Anche perché risulta abbastanza evidente come lo schieramento che ne è uscito vincitore non sembri proprio essersene accorto. Almeno sotto l’aspetto di coglierne gli effetti politici. O meglio, a parte la Cgil, che con la raccolta di oltre tre milioni di firme avvia la messa in discussione, ancora una volta referendaria, di un pezzo importante del contro-riformismo renziano; quello in materia di cancellazione del lavoro come soggetto politico e sociale (costituzionale: Art. 1) attraverso la sua precarizzazione.

Per inciso, se volete farvi venire un robusto mal di pancia andate a leggetevi l’articolo su La Repubblica di quella sagoma dell’ultra-liberista Alessandro De Nicola (fan del Friedrich Hayek che elogiava il ruolo sociale degli sfaccendati in quanto inventori dei giochi di società) il quale minimizza i danni del Jobs Act; confermando che quelli come lui, economisti immaginari quanto effettivi famigli dei top manager (anch’essi sfaccendati), non riescono a ficcarsi in testa che il lavoro è primaria risorsa competitiva, non costo improduttivo da imputare a elemosina. Dunque, per questa volta (e solo per questa volta), “forza Camusso”.

Ma gli altri? Nient’altro che silenzio o pulsioni bottegaie. Come quella di Beppe Grillo, il quale, dopo una campagna referendaria all’attacco dell’Italicum, se ne è uscito lanciando la bella idea di andare a nuove elezioni con quello stesso (giustamente) esecrato sistema elettorale. E bocciato dalla maggioranza degli italiani. Solo per puro calcolo di convenienza: incassare il bonus del 4 dicembre in termini di voti e parlamentari eletti. La stessa logica che ispira le indegne uscite grillesche sugli immigrati, solo per invadere lo spazio dei consensi leghisti (e seguire l’antico richiamo della foresta fascistoide, che molto spesso risulta irresistibile per l’inventore del mugugno urlato).

Intanto la peggiore politica politicante torna a riprendere piede; e Silvio Berlusconi, sotto schiaffo Vivendi in azienda, cancella Denis Verdini offrendo i propri voti al premier Gentiloni. Come puntelli della risicata maggioranza a fronte di un paracadute nelle battaglie contro l’invasore Vincent Bolloré. Appoggio che produce l’evaporazione dell’aggregato verdiniano; ma potrebbe significare anche la prosecuzione della legislatura fino alle scadenze ufficiali: parrebbe interesse dell’ex Cavaliere tirarla per le lunghe il più possibile, visto che ai rinnovi elettorali il suo pacchetto di voti (con cui oggi negozia pro domo sua) verrà ampiamente falcidiato.

Intanto a sinistra vige il silenzio più sonoro, appurato che ai dissidenti Pd interessano solo i regolamenti di conti interni e i vari gruppuscoli confermano la cronica negazione all’iniziativa politica fuori dalle stanze in penombra dove vagolano.

E via seguitando con queste miserie. Mentre quella prima domenica di dicembre ci aveva consegnato un messaggio politico di straordinaria importanza: la messa in discussione dell’intero apparato reazionario predisposto in questi anni per ingabbiare la società italiana e smantellare il sistema delle garanzie. Indicazione che offre una miriade di bersagli politici, a partire dalla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, per proseguire con la svendita della scuola repubblicana (pubblica) e arrivare all’efferato azzeramento di corpi intermedi e di controlli democratici. A conferma che la politica italiana è refrattaria a operare politicamente, quando ciò non significa scambi negoziali e occupazione di organigrammi.

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