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Giocare a SuperMario fa di te un idraulico ad honorem? No. E scrivere su Facebook non fa di te uno scrittore

La polemica di Domenico Naso

Leggendo l’incisivo articolo di Alessandro Piperno sul mestiere di scrivere pubblicato su “La Lettura” del Corriere della Sera di domenica, è scattata una riflessione più ampia sul legame malato che ormai sembra essersi creato tra scrittura e web. Troppa gente, complici anche le illusioni a buon mercato vendute dai social network, crede che scrivere sia facile, che basti prodursi in uno status simpatico o cinico, sferzante o pseudopoetico per trasformarsi in scrittori o giornalisti. Eppure scrivere è difficilissimo e chi lo fa per vivere lo sa bene. Il web, tra le tante meraviglie che ha regalato alle nostre vite, ha portato con sé anche alcune piaghe mortali che hanno devastato mestieri nobili, o comunque mestieri e basta, senza aggettivazioni, che dovrebbero essere svolti da chi li sa svolgere, non da chi crede di saperli svolgere.

Se i tubi del mio bagno esplodessero all’improvviso, inondando casa tipo Venezia con l’acqua alta, io chiamerei un idraulico professionista, non un appassionato di tubi e chiavi inglesi che ha giocato per anni a SuperMario e quindi si sente idraulico ad honorem. E lo stesso vale per tutti gli altri mestieri, nessuno escluso.

Evidentemente, però, per il mestiere di scrivere si può fare un’eccezione, visto che sul web ormai siamo invasi da buoni a nulla dalla penna banale e soporifera che sono convinti di essere Hemingway. Eppure una frasetta sui social è diversa da un articolo o, meglio ancora, da un libro. Il problema è che questi megalomani della scrittura sono stati gonfiati a dismisura da siti e testate web anche prestigiose, che per inseguire le mode online hanno ingaggiato intere legioni di incapaci, magari pagandoli anche due lire e dunque generando un equivoco immenso da cui non riusciamo più a uscire: spendo poco, raggiungo una platea enorme grazie ai tanti follower dell’incapace in questione, dunque ho vinto.

Niente di più sbagliato: abituando i lettori a standard qualitativi infimi, i siti web hanno contribuito a diffondere come un virus inarrestabile la convinzione sbagliata che tutti, nessuno escluso, possono scrivere. Una castroneria senza precedenti, una convinzione dannosa che ha abbassato l’asticella e ci ha costretti ad abituarci alla mediocrità, al vuoto pneumatico, alla frase ad effetto costruita in laboratorio al solo scopo di collezionare migliaia di like e retweet. È la produzione di massa della parola scritta, il “Made in China” della scrittura, la fine ingloriosa di un mestiere difficilissimo, banalizzato e mortificato da chi crede che siamo tutti “artisti” in nuce, basta solo tirare fuori il talento.

Ecco perché sui social tutti credono di poter diventare chissà chi, ecco perché persino la più inutile e idiota delle webstar oggi pubblica libri, si fa sfruttare da giornali e case editrici alla disperata ricerca di introiti in un periodo balordo e al contempo sfrutta l’idiozia collettiva per fare cassa. È business, insomma. Di basso livello e dal respiro corto, ma pur sempre business. Bisognerebbe, invece, lanciare un messaggio urbi et orbi agli scrittori e giornalisti del web, un messaggio breve e semplice, lineare e diretto: “Cercatevi un lavoro vero, perché scrivere non fa per voi”. E a chi li ingaggia, a chi li preferisce, ad esempio, a giornalisti veri, che sanno scrivere e soprattutto conoscono il confine tra giornalismo e opinionismo da tastiera, bisognerebbe far capire che va bene monetizzare e accalappiare click, ma entro limiti di decenza e di rispetto nei confronti di chi scrive per vivere, di chi lo sa fare.

Uno come Cesare Pavese, per esempio, probabilmente oggi avrebbe pochissimi follower su Twitter e verrebbe ignorato da giornali e riviste, siti e portali. Non risponderebbe al prototipo dello “scrittore/giornalista perfetto”. Non avrebbe mercato. Non avrebbe un pubblico. E non sarebbe colpa sua, ovviamente, ma di chi ha esaltato negli ultimi anni le abbreviazioni con le x e le k, l’abuso di parole inglesi anche quando non sono necessarie, le massime da Baci Perugina spacciate per perle di grande scrittura.

Scrivere è sempre stato un mestiere di merda, ma oggi lo è ancora di più, se possibile. Perché a tutte le difficoltà che porta da sempre con sé, tocca aggiungere anche le distorsioni del web, la fuffa venduta per arte, l’illusione che siamo tutti scrittori e giornalisti, quando invece basta un semplice esperimento per smontare questa idiozia. Prendete un fenomeno da social, uno qualsiasi. Uno di quelli che si crede uno scrittore o un giornalista. Mettetelo di fronte a una pagina bianca di Word e affidategli un articolo da scrivere, o un saggio breve, un racconto. Nove su dieci, il fenomeno in questione raggiungerà una soglia tale di frustrazione da decidere, dopo aver accettato la realtà, e cioè di non essere in grado di scrivere una parola che sia una, di iscriversi alla Scuola Radio Elettra per cercarsi un lavoro che sia in grado di fare.

Perché no, ragazzi: scrivere non è per tutti. E magari questo assunto non sarà popolare, nell’epoca del “Tutti possiamo fare tutto”. Siamo pronti anche a sorbirci le solite risposte, del tipo “Dici così perché sei invidioso di chi non fa la gavetta e ha più lettori di te!”. Sbagliato. È che continuiamo ad avere, contro l’opinione comune e la consuetudine di questi tempi, un enorme e smisurato rispetto verso il mestiere di scrivere. Che è un mestiere, appunto, e non si può improvvisare.

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