Privazioni: “Consumo un pasto al giorno, ormai ho uno stomachino”. Soprannomi: “Sa come chiamavano Visconti? Il mostro della Via Salaria”. Concessioni: “Niente caffè e niente frutta, bevo solo un liquorino”. Mezzogiorno è alle spalle e nel ristorante a pochi metri da Piazza Navona Paolo Poli lo chiamano maestro: “La gente mi vuol bene perché mi vede poco”. Torme di turisti gli passano accanto senza far caso al papillon che stringe il collo ai suoi 86 anni: “Ho fatto un mestiere in cui travestendomi, dimenticavo la mia modesta esistenza borghese, ho lavorato sempre per conto mio, ho visto un’epoca bella e sono arrivato a un’età ragguardevole, cosa dovrei augurarmi ancora?”. Da ieri, a 4 decenni dall’ultima volta: “Il programma era Babau ’70, i democristiani non volevano uno sketch, i socialisti eccepivano su un altro e di veto in veto la trasmissione venne mandata in onda solo nel 1976″ Poli è tornato in televisione. Su Rai 3, per otto settimane, con voluta citazione dell’amico Palazzeschi nel titolo: “E lasciatemi divertire” l’attore che diffida dei propri simili: “Sono terribili, non li frequento, ma faccio un’eccezione per il mio compagno di avventura Pino Strabioli che non ha i tipici difetti della categoria e non passa le giornate a parlar male degli altri” e non ama il narcisismo: “Quando ero giovane e bella le foto non me le han fatte, escludo di mettermi in posa adesso” metterà in vetrina un viaggio tra vizi e virtù, peccati capitali e innocenti deviazioni biografiche. Moravia, Fellini, Maria Callas, Ave Ninchi, Sandra Mondaini, Laura Betti: “Laura diceva che Roma era una città di campagna”.

Aveva ragione?
A Pasqua si andava fuori porta a vedere i ciclamini. Eravamo poveri e si mangiava poco, ma quel poco ci bastava. Quanta fame ci ha tolto Mario Soldati.

Soldati sfamava lei e Betti?
Ci venne incontro in Via Condotti: “Povere piccoline, cosa fate in giro da sole?”, “siamo due orfanelle affamate”, “venite a casa mia”. Ci fece salire. Tirò fuori la pasta ed esplorò il frigorifero. Non c’era niente. Neanche un pomodoro. Mangiammo spaghetti al Whisky. Buonissimi. Mario, un grande artista, era innamorato pazzo di Alida Valli.

Una volta si nascose in un tappeto mentre Valli e Dino Risi ascoltavano un disco di Sinatra. Lo tradì la tosse: “Non so come sono finito qui dentro”.
Per descrivere la fantasia di Soldati basterebbero i suoi film. Piccolo mondo antico, Eugenia Grandet. Cose alte. Argute. Valli me la ricordo bene. Abitava qui dietro. La vedevo uscire vecchia, vecchia. Molto presto di mattina. Con la miseria di una pensione avara andava a comprare un po’ di pane.

È avara anche la sua?
Avarissima. Non c’è una lira, ma chi se ne frega. Tra una marchetta e l’altra qualcosa arriverà.

Poli non fa marchette.
Le facciamo tutti. Bisogna sopravvivere. Negli ultimi due anni ho recitato senza incassare un cazzo. Ho contattato un avvocato e provato a far valere le mie ragioni.

Risultato?
Alcuni comuni del sud mi hanno proposto di pagarmi un quarto di quanto avevano pattuito. Altri sono spariti.

In aprile aveva annunciato il ritiro dalle scene.
Era un paradosso. È diventato titolo sensazionalistico. E si è infine trasformato in epitaffio. Di quei soldi non piglierò mai nulla. Per chi ti deve pagare, uno che si ritira è già bell’e morto. Ma non importa. Ho visto Giorgio Albertazzi partecipare a un talent. Mi ha fatto pena.

Lei a un talent show non parteciperebbe?
Esiste un limite. Comunque sono abituato a vivere in povertà. Ho visto una Guerra Mondiale. Ho vissuto nella miseria successiva al conflitto. Mi sta bene anche la miseria, purché mi permetta di rimanere signore. Un po’ di vino lo vuole?

Si è sentito signore a duettare con Strabioli in “E lasciatemi divertire”?
È stato un piacere, anche se i tempi, è ovvio, sono cambiati. Domina la fretta. Quando mi sembrava di aver fatto delle papere, chiedevo di ripetere la scena e mi sussurravano rassicuranti: “Ma no, non c’è problema, va benissimo”.

Buona la prima.
Sul set me lo diceva anche Alessandro Blasetti: “Buona la prima, ma la fica è meglio. Fammene un’altra”. Con lui girai un filmettino. Quando nelle pause raccontava la storia del comunista che si fa una sega e succhia il proprio sperma così mangia, beve e non spende, mi mandava via. Sapeva che ero comunista, ma ignorava che avessi l’orecchio lungo.

Storia tremenda.
Che le devo dire? Le maestranze ridevano senza ritegno. C’era un po’ di cameratismo. Blasetti diceva cose tremende, ma era antropologicamente interessante. Durante il regime si era potuto permettere qualsiasi libertà perché Mussolini lo adorava e gli lasciava fare quel che voleva.

Lei per il cinema ha lavorato poco.
Ero negata. Ma al cinema andavo sempre. Entrare in sala era una grande gioia. Quando alla cineteca di Bologna restaurarono “La bellezza del diavolo” di René Clair mi fiondai come mi fiondavo da ragazzo. Alla sede del fascio, dove non chiedevano il documento d’identità, avevo visto Clara Calamai con le poppe al vento e il culo stracciato proprio in un film di Blasetti.

Dopo il seno di Vittoria Carpi in “La corona di ferro”, Blasetti mostrò quello di Calamai ne “La cena delle beffe”.
Il film era un polpettone insostenibile, ma in America era piaciuto ai fratelli Barrymore.

Il cinema era un’occasione utile agli amori di contrabbando?
Ero bello, ero giovane, non avevo bisogno di espedienti. Però una volta in un cinemetto dei preti ho visto un signore con la chiusura lampo al contrario. Ce l’aveva sul buco del culo e in piedi, senza scomporsi, lo prendeva da dietro. Stratagemma geniale.

In certe epoche l’omosessualità era costretta al buio di una sala?
I miei amici finocchi si sposavano tutti. La famigliola ordinata. Le foto. I passeggini. L’utilitaria. Il televisore al centro del salone. Poi li incontravi in stazione in strani orari e in vesti più colorate. Vicino ai cessi. A Firenze il più famoso lo chiamavano latrin lover. Eravamo 6 fratelli, l’unico che ha trombato senza fare i figlioli sono io. Non me ne pento. Si morde e si fugge.

Lei da Firenze si trasferì a Roma.
Per fortuna. Laura Betti la incontrai presto. Sa la prima cosa che mi disse? “Sei una scema, una stupida e una cretina”. Mi parlava al femminile. Mi diede un frou frou che non so dirle.

Le piaceva?
Eravamo belle, giovani e magre. Una volta con Laura tirammo avanti per una settimana a Whisky e noccioline. Si andava dagli americani. Lei parlava in inglese e io in francese. Cercavamo di piacere in tutti i modi. Cantammo anche insieme. Avevo una parrucca bionda. Biondo Kessler perché tutto ciò che era biondo nell’immaginario rimandava solo alle gemelle.

Una parrucca bionda.
Buona per una donna di facili costumi come per un finocchio. Tingersi non era una nostra esclusiva prerogativa, anche se alla tintura io e Laura aggiungevamo una puntina di verde. Con il nostro preparato Milva esagerò. Uscì in scena a Bologna con la testa tutta verde. “Oh, rimani così per 3 o 4 giorni, cretina – le dissi – non ti andar subito a ricuocere di rosso”. Strehler le faceva tutte rosse. Tipo Rhonda Fleming. Maiale dalle dubbie capacità recitative, ma capaci di far sentire male gli uomini. Le rosse salivano sul palco e ai maschi diventava duro.

I ruoli definiti in certi spazi si confondevano. Al fondo Pasolini, Laura Betti dominava la scena apostrofando al femminile anche Emanuele Trevi: “Tu non esisti, zoccoletta”.
Trevi con Laura è stato schiava, io ero alla pari. A sua volta Laura era schiava di Pier Paolo. Ammirava Moravia per la sua cultura e lo chiamava “il ceppo”. L’altro ramo dell’albero era Pasolini. PPP era straordinario, ma non mi poteva soffrire. Dicevo sempre banalità e non sfioravo il genio di Moravia. Alberto non aveva studiato, ma sapeva tutte le lingue. Gli ebrei erano fenomeni di determinazione. Ho conosciuto Don Milani, non ha idea di che persona straordinaria fosse. Gente che le scarpe, scendendo dalla montagna, le indossava solo per entrare in città.

Chissà cosa avrebbe detto Don Milani della sua Santa Rita da Cascia interrotta dalla celere nella seconda metà dei 60 a Milano.
Erano i poliziotti di Scelba. Tutti piccoli. Meridionali. Poveri. Che a Valle Giulia fossero loro i disgraziati, ebbe il coraggio di dirlo solo Pasolini.

Gli anni a Milano furono importanti?
Tra il ’60 e il ’70 sono stato quasi sempre lì. Il mio vero amico vero era Missoni. Ottavio detto Tao e sua moglie Rosita. Si andava nelle bettole: “Ti ricordi quel verso?”. Si iniziava a cantare. Sembravamo fascisti.

E fascisti non eravate.
Ma in quell’epoca eravamo cresciuti. Mussolini non mi piaceva, ma nel ’35 la propaganda del regime la ascoltavo alla radio. Il sabato, a dito, si seguiva l’opera: “Mira o Norma à tuoi ginocchi”. Io chiedevo “Babbo, perché vuole ammazzare i suoi bambini?” e lui: “Perché li ha fatti con il nemico”. Di Romani e Galli non sapevo nulla. Vogliamo Nizza e la Corsica, si gridava. E loro, i cattivi francesi in coro: “Giamè, giamè, giamè”. “Jamais, Jamais, Jamais”. Il francese lo imparai poi con Victor Hugo. Les misérables. Il disegno in copertina. La figurina nera. Lessi come tutti, in un’edizione miserella, anche Pinocchio.

Lei sostiene che senza il peccato di Eva sarebbe stato noiosissimo anche l’Eden.
Ma certo. Senza peccato si muore di sbadigli e non accade niente. È cominciata così la storia. PrendaPinocchio. Il peccato è foriero di ogni disgrazia, ma Collodi che era un genio, ha messo in ogni capitolo, in ogni puntata, uno spavento, un cattivone, un consiglio morale e una roba da ridere. Ci volevano tutti gli elementi. E lui lo sapeva. Come lo sapeva Comencini. Nel suo Pinocchio per la tv, per elevare il quadro, basta la presenza della volpe Ciccio Ingrassia. In quello di Benigni invece, nello stesso ruolo si ricorre all’accento milanese e alla comicità dei Fichi d’India. Lo scopo è far ridere. Il risultato diverso.

Benigni lei lo ha conosciuto bene.
È diventata tutta correttina. Forse è l’influenza della moglie. Lei ha un Papa in famiglia. Benigni è bravo, è artista, riesce a parlare dei Dieci Comandamenti e va a Sanremo a dire: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. Io mi romperei i coglioni. Il più retorico tra i pezzi danteschi, tutto pieno di ossimori o ossimori che dir si voglia. Una cosa che si recitava, per obbligo, ai tempi della scuola.

Benigni non le piace?
Era innamorato di mia sorella che non gliel’ha mai data. Lei aveva intorno bei giovanotti, sapeva scegliere. Amo Lucia. L’unica parente con cui sia in stretto contatto. È come fosse mia figlia. Una figlia di dodici anni.

Lei ha sempre detto che mantenere l’identità è fondamentale. Benigni non ci è riuscito?
Ma nasce in un campo. Nasce povero. Allora scopre all’improvviso il buffet e il controbuffet. La forchetta. Le buone maniere. La società. E perde l’equilibrio. Accadde anche a Mussolini con Angelica Balabanoff. A lavarsi i piedi e a suggerirgli il giusto contegno a tavola provvide lei. Per il resto che dire della Benigna? Uno che prende in braccio Berlinguer e tocca i coglioni a Pippo Baudo è diventato senza preavviso una maestrina di scuola media. E guardi che a quel topino di Berlinguer io volevo bene.

Anche Berlinguer ha avuto il suo ricordo cinematografico.
Lasci stare. Del cinema italiano di oggi non ho una gran considerazione. Youth, è vero, non è per niente male. Ha due grandi attori e le telefonate, alla nostra età, somigliano tutte ai discorsi che si fanno Caine e Keitel: “Oggi quanto hai pisciato? Due gocce?”. Per il resto non ho apprezzato per niente “La grande bellezza” e anche Garrone, adorato ne “L’imbalsamatore“, ha trasformato Basile fino a renderlo irriconoscibile. Sette re, 14 principesse e niente del divertimento che provai leggendo “Lo cunto de li cunti“. Si fa fatica a digerirlo. Sono abituato ad altre emozioni. Mia zia e mi madre mi portavano in sala. Quando Greta Garbo disse “dammi una sigaretta” una si pisciò addosso e l’altra si sentì male.

Alla sua analisi manca Nanni Moretti.
“Mia madre” non mi è piaciuto granché. È montato male. Non ci si affeziona ai personaggi. Invece di vedere una grande attrice come la Lazzarini, Moretti ci costringe a osservare il film della regista imbecille. Meglio l’effetto notte di Truffaut. Ed è un peccato. Moretti è mio nipote.

Perché è suo nipote?
Ero amico della madre, Agata Apicella. Agata veniva in questa piazza e mangiava all’altro ristorante. Preferiva la concorrenza. La chiamavo e lei faceva la frettolosa: “Ora non ti posso parlare, ho qui la signorina Silvia Nono”. Era strano chiamarla signorina. Con Nono, Moretti aveva fatto anche un bambino. Nanni comunque non c’era mai. Sfuggiva. Aveva paura. Tra lui e Monicelli preferivo Mario. Appena mi metteranno in clinica attaccato ai tubi, mi butterò dalla finestra anche io.

Con Monicelli eravate amici?
Si andava a mangiare insieme. Mario non metteva il sale, guardava alla bottiglia di minerale come fosse droga, ma stava bene. Trombava. Aveva ancora due belle gotine rosse. Negli ultimi anni a lui e alla mia adorata Palazzeschi, si erano avvicinati i preti. Insegnavano loro a morire secondo religione. Non c’è nulla da fare. A una certa età ci acchiappan tutti. C’è la preparation.

I suoi amici sono tutti vecchi.
Quando va bene. Non ho mai convissuto a lungo e quindi affetti a cui badare non ne ho. Ho avuto per qualche tempo un rappresentante di fiori olandesi che non c’era mai e quindi andava benissimo. Facevo la birichina in giro con Filippo Crivelli, che ora si trascina con le mazze. Mi viene a vedere in teatro, dorme per tutto lo spettacolo e poi mi dice “Bravo Paolo, molto bello”. È tutto un claudicare di bastoni, un tintinnar di dentiere. Proprio qui venivo a mangiare con Natalia Ginzburg e Bassani. Prima di sedersi, Giorgio estraeva il ferro dalla bocca e lo poggiava incurante sul tavolo. Poi certo, subentra anche la noia. L’altra sera ho mangiato con Vittorio Sermonti. Ci siamo fatti entrambi due coglioni così, però che cultura. Che parlare. Ai nostri tempi si studiava davvero. Il San Tommaso, la Divina Commedia, tutto Aristotele. Almeno.

In “E lasciatemi divertire” passano anche Carmelo Bene e De Sica.
De Sica aveva come cognato Checco Rissone, il fratello della moglie, detto caccola. Era alto 20 centimetri, ma come tutti i nani aveva la terza gamba. Carmelo Bene l’ho visto spesso. Da giovane era bravissimo, straordinario. Con il tempo si ammalò. Non stava più ritto in scena perché prima dello spettacolo beveva una bottiglia di Whisky. L’ultimo Pinocchio era bruttino. Lui biascicava.

Del grande autodidatta, Alberto Sordi, che ricordo ha?
Odiosa persona. Omofobo. Dava la mano molle e guardava dall’altra parte. Bravo con Fellini, ma aveva già più di trent’anni perché Sordi, è utile dirlo, giovane non è mai stato. Trombava Andreina Pagnani che lui chiamava, non a caso, la vecchia. Lo conobbi a casa di Monica Vitti. C’era un compleanno. Io ero povero, ma mi sforzai e acquistai una testa di bambola della Lenci. Lui portò I maestri del colore comprato in edicola.

I soldi li ha chi se li sa tenere.
Un tempo quando incassavo bene, reimpiegavo il denaro nella mia attività. La prima volta che incassai 10 milioni nel ‘60 con il Carosello Campari comprai 13 proiettori e un tappeto per coprire le assi del palco. All’epoca si passava dal Regio di Parma alla sala Umberto dove Petrolini recitava dietro a un fondale con un finto Colosseo disegnato da Mario Pompei, uno strepitoso scenografo che come nuora aveva Paola Pallottino. La donna che scrisse 4/3/43, la prima canzone di successo dell’orribile pelato.

L’orribile pelato sarebbe Lucio Dalla?
In senso estetico. Ottimo cantante, ma per lasciare qualcosa al suo ragazzo, avrebbe dovuto scrivere tutto nero su bianco prima di andarsene. Non si può prevedere di campare. Io a nipoti e pronipoti, quel che dovevo lasciare, l’ho bell’e lasciato a suo tempo. Ho sempre avuto senso di responsabilità. Mio padre mi lasciava scegliere il nome dei miei fratelli. Sapeva di avere in casa una piccola artista e già mi diceva: “Di che colore dipingiamo la facciata?” “Rosa”. Avevo un villino in periferia con la facciata rosa e le stanze celesti. Rosa e celeste. I colori della madonna.

Rimaniamo in tema. Bergoglio la affascina?
Chi se ne frega di Bergoglio. Se io sono Biancaneve, il Papa deve essere una strega. Altrimenti a che serve? Un grande Papa era Luciani. Lo avevo conosciuto bene a Venezia. “Dio non ha sesso” diceva. Pensi quanto era intelligente. Han fatto presto infatti a toglierselo dai piedi.

Ha mai avuto paura di qualcosa, Poli?
Fino ai 22 anni, del sesso. Ho avuto tutto quello che ho voluto, uomini e donne. Ma fino ad allora, legavo il sesso a un’impressione orrenda. A spavento e violenza. Durante la guerra, i tedeschi avevano trombato la mia mamma in tre. Volevo sapere. Capire. “Eh Paolo, via. Ci si lava e bell’ e finito tutto”. La mia mamma era montessoriana, non aveva paura di nulla. Da piccolo mi dava rudimenti in tema: “Paolo, quando nascono, i bambini sul sesso hanno tre cicciolini. Il maschio ha il pisello e due fagioli. La ragazza ha le labbra della vulva e il buco nel mezzo, il clitoride, dove la donna sente il solletico”.

Quanto l’hanno segnata i ricordi della guerra?

Mi ricordo la liberazione. C’era voglia di calore. Le donne si calavano dalle finestre che sotto ci fossero repubblicani o repubblichini. Io ero tappato in casa. “Non andar più a prendere cioccolato e sigarette dagli americani – mi dicevano – ché altrimenti le tue sorelle non si sposano più”. Chi era andata con i tedeschi veniva rasata, ma chi aveva ceduto agli americani rimaneva comunque maiala. Avevamo i buchi sulle pareti e un’ora di riscaldamento al giorno. Avevamo poco. Ma ero bella e piacevo lo stesso. Le altre non so.

Paolo Poli si sente cattivo?
Piango, rido e parlo come tutti, non son mica un mostro. Dite che ho detto male di qualcuno? Che cattive, che maligne, che stupide che siete.

Da Il Fatto Quotidiano del 21 giugno 2015

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