È arrivata all’alba di ieri, venerdì 18 dicembre, la prima esecuzione in Giappone di un detenuto condannato da una giuria popolare. Sumitoshi Tsuda, 63 anni, è stato giustiziato assieme al 39enne Kazuyuki Wakabayashi. Le loro sentenze di condanna a morte sono le prime ad essere state eseguite dall’insediamento del nuovo ministro della Giustizia, Mitsuhide Iwaki, lo scorso ottobre. I due sono stati impiccati.

Tsuda ha passato anni nel braccio della morte. A maggio del 2009 fu messo sotto processo per l’omicidio di tre persone; lo stesso anno il Giappone introdusse il sistema dei giurati da affiancare ai giudici. Infine, nel luglio del 2011, la giuria non accolse la tesi della difesa che sosteneva la non premeditazione del delitto. Lo stesso Tsuda ha voluto chiedere perdono alle famiglie delle vittime, spiegando che avrebbe pagato con la sua stessa vita e ritirando la domanda di revisione della pena presentata dai suoi legali all’Alta corte di Tokyo. L’altro giustiziato, Wakabayashi, fu invece giudicato colpevole dell’omicidio di una donna e della figlia di questa nel 2006, entrambe uccise durante una rapina in casa per l’equivalente di poche centinaia di euro.

Le due impiccagioni portano a 14 le sentenze di condanna a morte eseguite da quando il Partito liberal democratico guidato da Shinzo Abe è tornato al potere nel 2012. Il sostegno alla pena capitale nell’arcipelago continua a essere ancora solido: conseguenza, scrive il Guardian, dell’attentato al gas sarin nella metropolitana di Tokyo, perpetrato il 20 marzo 1995 dalla setta religiosa Aum Shinrikyo, il cui bilancio delle vittime fu di 13 morti e 6300 feriti.

Il governo si fa scudo citando i dati dei sondaggi, che danno l’80 per cento della popolazione favorevole alla pena di morte. Di parere contrario è la Federazione degli avvocati. La scorsa settimana l’organizzazione ha esortato il ministero della Giustizia affinché istituisca un comitato per affrontare il tema e chiede una discussione pubblica. “L’esempio di altri Paesi dimostra che la decisione di abolire o mantenere la pena di morte è politica, non dipende da sondaggi d’opinione” recita il documento citato dal Japan Times. Il quotidiano riporta anche le conclusioni di uno studio risalente a questa primavera, condotto da Paul Bacon della Waseda University e Mai Sato della University of Reading, dal quale emerge che le domande poste nei sondaggi sarebbero mal formulate e indirizzerebbero le risposte verso posizioni più favorevoli al mantenimento della pena di morte.

“La volontà delle autorità nipponiche di mettere a morte le persone fa rabbrividire”, dice la direttrice per le ricerche sul Asia orientale di Amnesty International, Roseann Rife. “Occorre porvi fine prima che vadano perse altre vite. La pena di morte non è giustizia né la risposta ai crimini. È soltanto una forma crudele di punizione”. L’organizzazione per la tutela dei diritti umani contesta tra l’altro i modi con cui le sentenze sono eseguite. Ai prigionieri è spesso dato un preavviso di poche ore, mentre l’avvenuta morte è comunicata alle famiglie soltanto in un secondo momento. Tra i 128 detenuti nel braccio della morte non mancano inoltre condannati con problemi mentali.

AI chiede pertanto a Tokyo una moratoria, primo passo verso l’abolizione. Il Giappone andrebbe così ad unirsi ai 140 Paesi che a livello globale hanno abbandonato tale pratica. L’ultimo in ordine di tempo è la Mongolia, che ha di recente approvato una legge in tal senso, che entrerà in vigore da settembre del prossimo anno.

di Andrea Pira

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