Non hanno mai fumato uno spinello né intendono farsi una coltivazione a proprio uso e consumo: la loro è una battaglia per il bene del Paese, il cui obiettivo è togliere ai cartelli del narcotraffico il loro principale strumento, il denaro. Per questo motivo Francisco Torres Landa, Armando Santacruz, Andres Aguinaco e Josefina Ricano Nava, fondatori dalla Società messicana di autoconsumo responsabile e tollerante (Smart), due anni fa si sono rivolti alla Corte Suprema del Messico per chiedere di poter produrre e coltivare marijuana. Richiesta accolta mercoledì dai giudici, che hanno aperto le porte alla legalizzazione della marijuana per finalità “ricreative”.

La decisione è stata approvata con quattro voti a favore e uno contrario dai giudici, che hanno ritenuto incostituzionale “la proibizione assoluta” del consumo di marijuana. Nel considerare “fuori di dubbio che il consumo di qualsiasi droga genera un problema di salute”, la Corte ha tuttavia ritenuto senza “alcuna ragionevolezza” il fatto che “la risposta dello Stato al consumo sia la reclusione e il divieto assoluto del consumo”. La sentenza ha così dichiarato incostituzionali gli articoli che proibiscono l’uso e la coltivazione a fini ricreativi della marijuana, ma mantenuto il divieto di commerciarla.

Una decisione che, come è facile immaginare, non è stata accolta con favore da molte parti del Paese. Il presidente messicano, Enrique Peña Nieto, ha ribadito infatti che il governo non intende modificare le proprie azioni relative alla localizzazione e la distruzione delle piantagioni, e che in alcun modo il verdetto “implica l’eliminazione di tali politiche”. “Le nostre posizioni sul tema sono diverse”, ha aggiunto il ministro della Sanità, Mercedes Juan. Alejandro Encinas, senatore del Partito della Rivoluzione Democratica, ha invece già detto che dopo la decisione dell’alta corte ora bisogna passare alla “regolamentazione della produzione, distribuzione, commercializzazione e consumo dell’erba”.

Ma i sondaggi indicano che la maggioranza dei messicani (77 per cento) è contraria alla legalizzazione della marijuana per uso ricreativo, anche se sei anni fa erano il 92 per cento. Sta invece crescendo l’interesse sul possibile uso terapeutico della cannabis, approvato da quasi l’80 per cento della popolazione. Tanto che Cristina Díaz, presidente della Commisione di governo del Senato, ha annunciato che presenterà a breve un disegno di legge su tale utilizzo. Il governo ha inoltre sottolineato che la sentenza della Corte rappresenta solo una decisione singola, che non crea giurisprudenza – perché ciò accada sono necessari almeno 5 decisioni equivalenti -, ribadendo di non avere alcuna intenzione di modificare la legislazione sulla materia.

Il Messico si pone così nel solco delle scelte prese da altri paesi americani: l’Uruguay ha legalizzato la produzione e vendita di marijuana dal 2013, mentre il Cile sta discutendo una legge per depenalizzarne l’uso a fini terapeutici e ricreativi. Negli Stati Uniti sono ormai ben 23 gli Stati che hanno autorizzato la cannabis per uso medicinale, e 4 a fini ricreativi.

Ma a livello pratico cosa comporta questa decisione? Di fatto gli unici che potranno coltivare e produrre la propria marijuana saranno i quattro che hanno presentato ricorso, quindi non viene autorizzata la commercializzazione della droga. Quella degli attivisti messicani è una battaglia “strategica per abbattere l’origine delle politiche antiproibizioniste in tema di droga”, spiega Torre Landa, che ha perso uno dei suoi cinque figli in un sequestro terminato con l’assassinio nel 2005.

Per Santacruz “è solo questione di tempo perché si arrivi ad avere le 5 decisioni sufficienti per fare giurisprudenza. E’ il primo chiodo sulla bara del proibizionismo ed è una buona misura a favore di una politica sulla droga più razionale”. I prossimi mesi potranno dire che questa della Corte Suprema è stata effettivamente l’apripista alla legalizzazione della marijuana, o un caso isolato.

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