Sono le otto di un martedì di metà settembre. Alla scuola primaria “Carlo Pisacane” di Roma è suonata la campanella. Arriva di corsa un signore in giacca, cravatta e ventiquattrore che tiene per mano il figlio. Sono italiani. Salgono le scale e dietro infilano il portone una donna con il capo coperto da un velo verde smeraldo e una bimba in tuta da ginnastica rosa. Due minuti e si presentano madre e figlia, con gli occhi a mandorla e poi un’altra italiana col suo bambino. Sul pavimento dell’atrio la scritta blu “mare madre”, incorniciata dalle onde. Ecco, chi entra lì è un cittadino del mondo. Le classi ghetto, le fughe bianche, lo straniero “nemico” abitano lontano, tra le paure sventolate dai politici a turno per spostare i voti. La realtà quotidiana parla d’altro: di integrazione vera, reale, quotidiana e vissuta. E noi siamo andati a vederla. Siamo entrati nelle scuole ai margini delle grandi città per capire come si fa “integrazione multiculturale”. Qualche dato, prima, per avere un’idea del fenomeno. In Italia ci sono 57mila scuole. Di queste, 2851 con una densità straniera che va dal 30% in su. In particolare, sono 510 quelle che superano il 50% e 27 quelle con oltre l’80% di stranieri.

Partiamo da Roma. È una giornata di sole. L’istituto Pisacane sorge in via dell’Acqua Bullicante 30, nel quartiere multietnico di Torpignattara, periferia sud-est della Capitale. In cortile 16 alunni con la pelle di tutti i colori sono seduti in cerchio. Gli altri fanno lezione nelle aule con le cartine dei cinque continenti fissate sui muri scrostati. Duecento iscritti totali. “Gli italiani sono ritornati da noi – dice Vania Borsetti, maestra qui da sette anni – sono figli di professionisti, registi, artisti, insegnanti. Hanno capito che la diversità culturale tra i banchi è un valore e non un ostacolo. Oggi nelle classi prime gli stranieri sono il 50%, nel 2010 erano il 90%. Questa sì che è convivenza”. Nel 2009 la scuola è finita nell’occhio del ciclone a causa dell’alta presenza straniera, che superava il tetto del 30% per classe imposto dal ministro Gelmini. Alcune mamme italiane avevano trasferito i loro figli in altri istituti. “Una mattina un’associazione di estrema destra occupò le scale d’ingresso, il quartiere era in rivolta, c’erano le telecamere della tv davanti alla scuola e i bambini spaventati”. Aprire le porte al territorio è stata la soluzione per non chiudere: “Dovevamo farci conoscere per non farci temere”. Le maestre hanno appeso al portone locandine in arabo, bengalese, cinese e italiano per invitare i residenti al coro, alle recite, i laboratori di arte, le feste dei popoli. Il 18 dicembre di ogni anno, per la giornata mondiale dei rifugiati, musicisti di fama internazionale fanno un concerto con gli studenti. “Palco, videoproiettore e server ce li prestano i commercianti. Ogni etnia prepara piatti tipici. L’ultima volta eravamo in 500”. I genitori nel 2013 hanno fondato l’associazione “Pisacane 011” che organizza corsi in palestra e in cortile aperti a tutti: quello di chitarra, sassofono e batteria, di teatro, sport, e l’aiuto compiti. Oggi quella scuola, all’incrocio tra un bar italiano e un negozio di cianfrusaglie cinese, è diventata il polo culturale del quartiere. “Offriamo un’educazione internazionale. Un bambino italiano e uno bengalese sono amici per la pelle, e la famiglia del secondo ha iniziato a visitare i monumenti di Roma. Un’alunna calabrese ha insegnato alla classe il suo dialetto per dimostrare che anche lei parla due lingue. Qui la doppia identità è forza. Perché il Miur non ci aiuta? Le nostre aule cadono a pezzi, molte non hanno le porte, una finestra è rimasta rotta per due mesi. E le ore di potenziamento della lingua italiana (L2, ndr) per chi è appena arrivato sono ridicole, solo 30 all’anno”.

Qui Esquilino, dove la segretaria è fatta da 4 mamme: due marocchine, una somala e una filippina
Ha stretto un patto con il territorio anche la scuola “Di Donato“, nel rione Esquilino, vicino alla stazione Termini. Ore 17.30. Lezioni terminate un’ora fa. Nel piano seminterrato con volta a botte ci sono almeno 150 bambini impegnati in mille attività. Sono italiani, cinesi, bengalesi, mediorientali, nordafricani e rumeni. Fanno calcio, basket, pattinaggio, danza, pittura, teatro, musica, lettura, doposcuola. C’è anche una stanza per i giochi. La sede della web radio di Save the children. E dalle 20 alle 22 i balli popolari per i nonni e il fitness per insegnanti e genitori. A gestire lo spazio ci pensano le famiglie, a turno. In segreteria ci sono quattro mamme, due marocchine, una somala e una filippina. Il custode, filippino anche lui, è un papà che fa l’elettricista. La scuola è aperta anche nei weekend. Al sabato mattina ci sono i corsi di informatica per i piccoli. Alla domenica le feste (ogni volta dedicate a una cultura diversa), i laboratori di costruzioni, cucina tradizionale, tornei sportivi, sfilate di veli e abiti orientali, visione di documentari con dibattito. “L’ultimo era sull’immigrazione italiana in Belgio – spiega Francesca Valenza, genitore referente del progetto intermundia, finanziato dal Comune, che promuove l’integrazione nelle scuole romane, e ha sede lì – stiamo portando avanti un progetto sui rom, per capire chi sono e da dove vengono”.

Alla “Manin” gli iscritti italiani sono cresciuti del 30%
Per scelta tante famiglie italiane di altri quartieri hanno iniziato a mandare i figli alla Manin. Miriam Iacomini, maestra: “Gli iscritti italiani sono cresciuti del 30%. Sono figli di dirigenti e professionisti. Manca il ceto medio basso, più diffidente verso gli immigrati. Gli alunni in tutto sono 750, di cui il 51% immigrati”. Di nuovi arrivi dall’estero ce ne sono di continuo, almeno 30 all’anno. “In organico abbiamo 37 docenti, ogni volta chiediamo in ginocchio al Miur di darcene tre in più. Alle medie avremmo bisogno di un’altra classe. Altrimenti come facciamo ad accoglierli? Le ore di L2 non bastano, ma l’università ci mette a disposizione tirocinanti di lingue straniere per aiutare chi fa fatica a esprimersi”. La scuola va fuori. In Piazza Vittorio Emanuele con i gruppi di lettura e gli scacchi. Al Maxi e al Macro con le mostre di manufatti. Iacomini: “Abbiamo creato un’osmosi tra noi e gli abitanti. Così ci siamo salvati”.

Milano, al “Luigi Cadorna” una linea di confine tra Maghreb e movida
La scuola “Luigi Cadorna” di via Dolci 5, a Milano, ha fatto la stessa cosa per evitare le fughe bianche. Il posto non è dei più facili. È a due passi dallo stadio di San Siro, sul confine invisibile tra le case popolari delle famiglie magrebine e i palazzi dei milanesi abbienti. Dal 2006 è partita la collaborazione con associazioni locali, fondazioni e Consiglio di zona. Il dirigente scolastico Massimo Nunzio Barrella è fiero: “Grazie a loro oggi la scuola è aperta anche il sabato per scambi culturali e gare sportive. Il cortile ospita il mercato della Coldiretti, il martedì e il giovedì ci sono i corsi di italiano da tre ore per le straniere (una novantina) gestisti da nonne e mamme italiane con servizio di babysitting 0-3 anni”. Anche i genitori si sono dati da fare. Prima hanno creato un Comitato con una decina di commissioni all’interno. Poi nel 2007 alcuni di loro si sono uniti nell’associazione “Cadorna” per promuovere attività sportive, dal cacio all’hip hop, capoeira, basket, chitarra, lingue straniere. “Tutte le iniziative sono state raccolte in un diario distribuito agli allievi”. Il preside accende il computer e mostra una foto in cui è vestito con la dishdasha, la tunica bianca per gli uomini arabi, accanto a donne siriane e nordafricane in occasione di un party scolastico. “Erano felicissime di vedermi nei loro panni e io curioso dei loro costumi”. Gli alunni italiani dieci anni fa erano solo il 20%. Ora il 40%. Non per caso. La mentalità è cambiata: “I genitori decidono di mandarli qui perché sanno che una formazione multiculturale è più ricca di una monoetnica. Certo, le difficoltà non mancano. Poche ore di L2: 25. E qualche tensione. L’aiuto degli abitanti è stato decisivo e solo con loro possiamo migliorare”.

Quelle descritte sopra non sono soltanto tre scuole. Sono tre modelli di integrazione di successo, tre laboratori sociali da cui imparare. I dirigenti si sono dati appuntamento alla Biennale Spazio pubblico (organizzata dall’istituto nazionale di urbanistica) a maggio a Roma per un confronto a quattrocchi. Il workshop, coordinato da Vinicio Ongini, responsabile dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni del Miur, erano presenti altri cinque istituti esemplari.

Firenze, al “Sassetti Peruzzi” pochi fondi e docenti impreparati alla complessità etnica
Il “Sassetti-Peruzzi” di Firenze, una secondaria di secondo grado, ha una sede a Scandicci, in maggioranza italiana, e un’altra a Rifredi, periferia nord-ovest, in direzione Prato, con 331 alunni stranieri su 541, di cui 198 cinesi. Ha tre indirizzi: commerciale, socio-sanitario e turistico. E quattro problemi: difficoltà nella comunicazione con studenti (alcuni analfabeti) e famiglie cinesi, docenti impreparati alla complessità etnica, fondi scarsi per l’alfabetizzazione e per l’acquisto di testi semplificati, dispersione scolastica. “Tantissimi cinesi alternano la scuola a periodi di lavoro o viaggi in Cina” spiega Barbara Degli Innocenti, dirigente scolastica, che per contrastare il fenomeno da settembre 2014 ha attivato una sezione sperimentale apposta per loro. “Abbiamo tolto due ore di matematica e due di italiano per insegnare lingua e letteratura cinese. Lo studio di economia e diritto è bilingue. Il diploma sarà valido anche in Cina. È nata una partnership con due scuole della regione dello Zhejiang. A novembre il primo gemellaggio”.

Torino, al “Regio Parco” fino al 90% di stranieri
Semiperiferia est di Torino. Istituto comprensivo “Regio Parco”. Dal 30 al 90% la percentuale di bambini di altre nazionalità. Il cortile fino alle 18.30 è un luogo di ritrovo per genitori e alunni. Dipingono, giocano con la palla, lavorano la pasta di sale e l’argilla. La preside, Concetta Mascali, ha puntato sul coro: “Il nostro solista l’anno scorso era cinese. Cantare in italiano serve a impare la lingua”. E su un’orchestra di archi: “Ho lanciato una raccolta fondi per comprare violini e violoncelli. Due strumenti difficili che richiedono ascolto, collaborazione e disciplina”. Una richiesta: “L’università deve formare insegnanti con competenze multiculturali, che sappiamo la storia e la geografia dei popoli migranti, per essere  meno eurocentrici”.

Napoli, al “Bovio-Colletta” tra disagio sociale e progetti occasionali
Napoli
, zona stazione. Qui si respira un forte disagio sociale. Per colpa del lavoro che non c’è e del basso livello di istruzione. Non solo perché ci vivono gli stranieri, che sono tantissimi. All’istituto comprensivo Bovio-Colletta per favorire l’inserimento degli immigrati si leggono fiabe esotiche, si inventano racconti contro la discriminazione, si commentano film, si fanno lezioni anti bullismo. C’è anche un laboratorio di artigianato, danza e teatro per le mamme . “Quest’anno è durato solo un mese, nel 2014 è saltato, ci sono poche risorse – si lamenta la preside Annarita Quagliarella – siamo condannati a progetti occasionali”.

Tornando a Roma. Quartiere dormitorio tra Primavalle e Monte Mario. Accanto a un campo rom si trova l’Istituto alberghiero “Domizia Lucilla”. Da due anni c’è un progetto pilota che usa il cinema per insegnare la lingua italiana. “Gli studenti leggono la sceneggiatura, fanno il riassunto, modificano la trama, guardano le immagini con i sottotitoli in lingua originale” racconta Sergio Kraisky, insegnante.

Palermo, all'”Antonio Ugo” “le famiglie non si sentono diverse dai migranti”
Sicilia
, primo approdo dei profughi. All’istituto comprensivo “Antonio Ugo” di Palermo, quartiere Noce, controllato dalla mafia, ci sono tre classe di minori non accompagnati provenienti da Senegal, Nigeria, Egitto. “Il Comune ha fatto resistenza ma poi ha ceduto – spiega Riccardo Ganazzoli, il dirigente – le famiglie non hanno battuto ciglio. Non si sentono diversi dai migranti, hanno lavori precari, sono monoreddito. Lo straniero è uno stimolo. Perché chi viene dalla miseria attribuisce alla scuola una funzione civile che noi abbiamo dimenticato”.

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