La malattia è un avvertimento che ci è dato per ricordarci ciò che è essenziale” (Saggezza tibetana)
La vecchiaia. E’ la sola malattia dalla quale non si può sperare di guarire” (Orson Welles)
Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente bisogna morire” (Sigmund Freud)

Gli spettacoli dei Quotidiana.com non si possono definire “spettacoli”. Non c’è niente che possa chiamarsi spettacolare. Nella completa negazione dei parametri teatrali, luci fisse, di solito un neon basso a creare freddezza e distanza, nessuna musica, niente video, e il duo a guardarsi di profilo seduti a pochi passi e a lanciarsi frasi, nette e senza intonazione, decise e senza recitazione, con lentezza, scarne e precise e senza enfasi, atonali e monocorde. Pare essere il rifiuto del teatro, certamente l’abominio di alcuni (quelli che vanno per la maggiore) parametri scenici. In slow motion, spot lanciati al rallenty che sembrano che perdano forza e invece ne guadagnano.

Senza espressione né intenzione. O li ami o li odi. O riesci ad entrare nel loro codice binario, dove il contenuto ha assolutamente la sua rilevanza e predominanza rispetto alla forma (o al suo abbattimento), oppure sei tagliato fuori. Molti ridono. Non c’è niente da ridere nella disperazione (e forse si ride per allontanare ed esorcizzare la causa, istericamente come ad alcuni accade ai funerali), in quella rabbia che non riesce più ad avere nemici sui quali scagliarsi. Il loro percorso teatrale è un’unica piece, uno stesso flusso di parole secche, rattrappite e raggrinzite, una sola riflessione che, se ascoltata attentamente, apre i chakra delle possibilità e le tangenziali di altri mondi. Confinarli nel teatro dell’assurdo o dargli del “nonsense” è da una parte assurdo e dall’altra non ha senso. Significa non aver colto il grande disegno (affondo il colpo e tento l’aggettivo iperbolico) filosofico, di lotta al sistema, di confutazione di stili e schemi precisi.

La loro è una lotta senza quartiere che stavolta prende di mira non tanto la morte ma quanto il fine vita ci renda peggiori, ci faccia sentire tutto il peso dello stare al mondo, della nostra inutilità, del nostro essere spiccioli dimenticabili, passaggi rinunciabili, già cadaveri fin dal primo vagito. E’ proprio nel titolo “Io muoio, tu mangi” (c’è un che da Conte Ugolino che striscia) sta tutta la banalità del motto “la vita comunque continua” che in definitiva è il “the show must go on” teatrale. Il brutto è che poche volte c’è uno “spettacolo” da salvare e nella maggior parte dei casi è bene chiamarlo con il suo nome: tragedia. Normalità raggelante.

Molti, teatralmente parlando, negli ultimi anni, hanno scritto di malattia, morte e se vogliamo anche di eutanasia, da Romeo Castellucci con il suo controverso “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” con questo genitore che non riusciva più a trattenere i propri bisogni fisiologici ed imbrattava di terreno sporco il bianco delle sovrastrutture che ci siamo inventati, o Giulio D’Anna in “Parkin’son” che danzava con il padre affetto dalla stessa patologia del titolo, o ancora i Cuocolo/Bosetti con “Roberta torna a casa”, quando alla perdita di memoria della madre faceva da contraltare il ritorno alla memoria dell’infanzia e dell’adolescenza della figlia che ritornava dopo decenni lì dove era nata e cresciuta, in questo scambio di clessidre generazionale.

Qui un padre che se ne sta andando lascia la sua scia, la sua bava collosa e appiccicosa (quella della lumaca che indica il passaggio) attorno al suo piccolo mondo di parentame, un universo insignificante che si squaglia, che si sfalda tra richieste minime, in un tempo sospeso che non passa, indecisi se tentare di fermarlo o se accelerare verso l’inevitabile catastrofe, che non è mai una liberazione. Nella loro analisi, che si aggroviglia e s’inerpica tra strade di pensiero poco battute e rovi, nel loro labirinto di concetti, pare che s’incartino, che arrivino al loro stallo-“finale di partita”, li vedi con le spalle al muro, credendo nel crollo, ed invece trovano la scappatoia, la via d’uscita, con un colpo di coda dialettico, con un guizzo di pensiero. A tratti, togliendo la velocità d’esecuzione (arrivano allo stesso punto utilizzando metodologie agli antipodi), è possibile tracciare un ponte intellettuale tra i Quotidiana e Alessandro Bergonzoni.

L’ironia con la quale infarciscono i loro dibattiti, i loro cori accorati a due (uno davanti all’altra in posizione da sparo da Far West), fa da sala d’aspetto, da luogo preparatorio, da preliminari tenui prima dello schiaffo, prima del taglio netto, prima del cataclisma. Non sono allarmisti, non sono enfatici, non li sentirai piangere; nel loro aplomb contenuto e concentrato, endogeno ed autoriflesso, nel loro eremo non vogliono convincere nessuno, non fanno comizi o cortei né tanto meno proseliti. Non vogliono venderci alcun prodotto, è per questo che non hanno l’aria suadente e non bucano lo schermo: semplicemente non ne hanno bisogno. Soffici e agghiaccianti. Morbidi e tremendi. Vellutati e atterrenti. Hanno fatto il giro. Loro sono la boa.

Visto al Festival “Kilowatt”, Sasepolcro (AR), il 23 luglio 2015.

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