Ci si sta bene a Castiglioncello. Lo ha capito anche Goffredo Fofi nel suo peregrinare con il ‘Premio Lo Straniero’ che è approdato quest’anno tra gli scogli che videro le natiche di Alberto Sordi, i polpacci di Federico Fellini, i calzoncini di Marcello Mastroianni. Troppo per noi comuni mortali immergerci nelle stesse acque.

Castiglioncello che nel mondo teatrale, sempre più piccolo e irto a cono, spigoloso come triangolo isoscele appuntito da farcisi male, è sinonimo di Armunia o del festival ‘Inequilibrio’, neologismo che spiega e fotografa un momento, uno spazio, un tempo, da troppo forse, dove il teatro è relegato ai margini, non sposta più il dibattito, la società, i suoi elementi, operatori e soprattutto attori, sono sul liminare della sussistenza.

Piccolo mondo antico che perde pezzi e intonaco, seppur la verniciata dei teatri Nazionali voglia dare una parvenza ‘francese’ o ‘tedesca’ alla faccenda, rimaniamo pur sempre italiani con l’immaginazione, nel bene, e l’improvvisazione, nel male. Dicevamo ‘Armunia’: tanti, troppi spettacoli che affollano ad imbuto, fino a sette appuntamenti al giorno. Roba da perdere la bussola, che nei posti di mare fa sempre comodo. L’atmosfera è quella, con Massimo Paganelli (ex direttore di qualche tempo fa) ancora gran cerimoniere, i due nuovi direttori, Fabio Masi per il teatro e Angela Fumarola per la danza che si danno un gran daffare, e il giro degli attori rispecchia vecchie scelte e la logica delle residenze invernali al Castello Pasquini con il bellissimo drago in ferro battuto. Un festival per intellettuali del settore. Castello con sapore polveroso d’antan e tensostruttura a tre punte bianche come alberi di Natale innevati con il polistirolo.

Abbiamo visto alcuni spettacoli. La ‘Morte araba’ di Maurizio Saiu ha diciassette anni ma rimane fresca come i colori pastello del tappeto sotto i piedi della danzatrice Elisabetta Di Terlizzi che nei suoi movimenti verticali, volo sbilenco di una farfalla con una sola ala, come lingua, animalesca, cerca una via di fuga per respirare compressa tra alberi invisibili che le crescono addosso schiacciandola; va a trovare l’ultima goccia d’acqua e linfa e rugiada e brezza per animarsi nuovamente. Con pochi movimenti in pochi passi, sbraccia come pendolo, argano, fusione di composizione e picchiettii, cerca il centro immersa in questa natura, in una foresta dove incessantemente piove. Parchi elementi di umanità contemporanea: un elicottero, noise industriale, campane di chiesa, come a dire guerra, lavoro e Dio. In tutto questo lei è fiore che emerge, bocciolo che, mentre tutto attorno è caduta e violenza, ascolta solo i propri bisogni primari di sopravvivenza.

MorgantiClaudio Morganti è un ‘intoccabile’ qui. C’era, c’è, ci sarà, con tutto l’amore possibile che abbiamo nei suoi confronti. Lo abbiamo ammirato nelle varie prove del Woyzeck e nel ‘Mit Lenz’ ma quest’ultimo filone di letture drammatizzate con leggio, ‘Divina Commedia’, o questi ‘Canti Orfici’, non hanno niente di originale. Rimane un Maestro, con la maiuscola, e dai Maestri ci aspettiamo sempre un po’ di più e non un riempitivo di un cartellone.

Risente degli anni che hanno i protagonisti e le vicende riportate (ancora leggio, l’antitesi dell’attore ma strumento per l’impostato dicitore) nell”Inferno Novecento’, ripreso dopo dieci anni da Sandro Lombardi e David Riondino (alla consolle Federico Tiezzi, sempre molto venerato), riesumato per i 750 anni dalla nascita del Sommo Poeta. Lombardi - RiondinoCronaca collegata a canti infernali. Sentono il peso del tempo che infligge il color seppia alla cronaca, vicende come la morte di Lady Diana o quella di Saddam, alle quali, sinceramente, nessuno pensa più e da molto tempo, vista l’attualità che ci offre ben altri spunti di riflessione dolorosa. Come la clonata pecora Dolly andata nel dimenticatoio o i pluricitati e abusati e inflazionati Pasolini e la Monroe. Riondino che ancora, a tratti, vuol fare l’imitazione al primo Benigni, Lombardi sempre molto precettore di Leopardi: sbadigli vintage.

leonardo-capuano-roberto-abbiatiFino a Fame. Ma chi è Pasquale?’ dell’accoppiata storica Leonardo Capuano e Roberto Abbiati (tutti si ricordano il campione d’incassi, e nessuno sa spiegarsi il perché, ‘Pasticceri’ da centinaia di repliche). Si dovrebbe ridere. Si dovrebbe. Si. Gli sguardi stralunati abbondano nei due personaggi faticosamente beckettiani che, citazione nelle citazioni, rievocano alcuni spunti dai loro vecchi spettacoli. Idea autoreferenziale, funzionale e chiusa ma efficace se il pubblico, come dicevamo all’inizio, è sempre quello di riferimento. Due clochard che cercano di sfangare la giornata e riempirsi lo stomaco con poca fortuna. Tra un mantellone a due piazze che li rende azzeccagarbugli pinocchieschi o avvoltoi, tute da operai, nasi della commedia dell’arte, il tutto molto frazionato, segmentato che agisce per stratificazione lasciando poca eco dietro di sé. Un fumetto, troppo pieno tra oggetti e riferimenti (Beckett andava per sottrazione!), dal quale mettiamo in salvo l’urlo nel secchio chiamando Stanislavskij. Ma la sensazione che ci resta è di vaga insoddisfazione.

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