“Giappone, sì all’apartheid”: la frase choc nel Paese degli stranieri “invisibili”
“Certo, è ora che anche il Giappone apra all’immigrazione, ma è bene che gli stranieri, quelli che appartengono a razze e culture diverse, non vivano assieme, in mezzo a noi. Che restino, in qualche modo, separati. Per quel che ho potuto verificare a suo tempo, il sistema che era in vigore in Sudafrica andrebbe benissimo. Bianchi, asiatici e neri non possono vivere assieme”. A sostenere questa simpatica tesi non è un Salvini a mandorla o un gruppo di ubriachi che la sera si diverte a insultare gli stranieri per le strade di Tokyo, ma la signora Ayako Sono, affermata scrittrice (ha venduto milioni di copie dei suoi saggi e romanzi, molti dei quali tradotti in varie lingue, italiano compreso), nota da sempre –ha oltre 80 anni – per le sue posizioni diciamo così, un po’ conservatrici e un tantino xenofobe.
Questo improvviso elogio dell’apartheid – l’odioso sistema di segregazione razziale per lungo tempo adottato in Sudafrica – è apparso, guarda caso, lo scorso 11 febbraio, una festa nazionale dedicata alla “fondazione della patria” in vigore prima della guerra e di recente reintrodotta dal governo Abe, sul quotidiano ultraconservatore Sankei Shinbun, dove la signora Sono ha una sua rubrica fissa.
L’ambasciatore della Repubblica Sudafricana a Tokyo: “Sono sorpreso che un sistema condannato dal buon senso e dalla storia trovi, oggi, apprezzamenti in un paese civile come il Giappone”
Reazioni? Naturalmente tantissime. E per fortuna, per la maggior parte, di condanna. Anche tra i lettori di questo giornale, il cui padre-padrone, fino a qualche tempo fa, era, tanto per capirci, tale Nobutaka Shikanai, un ragioniere dell’Armata Imperiale che durante la guerra si occupava di far quadrare i bilanci dei bordelli al fronte, quelli dove il governo giapponese obbligava migliaia di donne coreane – ma non solo – a prostituirsi per “ristorare” le truppe.
Sdegnata reazione anche di Mohau Poko, attuale ambasciatore della Repubblica Sudafricana a Tokyo, che ha inviato una lettera a tutti i giornali, compreso il Sankei, dichiarandosi “indignato” e stupefatto per l’articolo. “Sono sorpreso che un sistema condannato dal buon senso e dalla storia trovi, oggi, apprezzamenti in un paese civile come il Giappone”.
Un po’ di imbarazzo l’articolo deve averlo provocato anche al governo, visto che Ayako Sono è stata per molti anni consulente personale dell’attuale premier Shinzo Abe, e che siede (o sedeva, si è affrettato a precisare il portavoce del governo) in varie commissioni governative. E soprattutto che un suo saggio sul concetto di “verità e onestà”, basato su concetti medievali, se non arcaici, come quello del legame di sangue con l’Imperatore, sia stato inserito proprio quest’anno come lettura obbligatoria in tutte le scuole medie dell’impero.
I problemi del Giappone con il tema dell’immigrazione sono evidenti. Specie a fronte della costante decrescita della popolazione
Che il Giappone abbia un problema con l’immigrazione è un vecchio discorso e una realtà sempre più evidente. Con una popolazione in costante decrescita – al punto che qualcuno ha parlato, ovviamente a lungo termine, di rischio di estinzione per il popolo giapponese – ed una storica avversione, forse solo timore, nei confronti di ogni tipo di integrazione/contaminazione che possa mettere a repentaglio una presunta – ma senza alcun fondamento scientifico – unicità razziale, il Giappone è l’unica grande potenza industriale dove gli stranieri – sia quelli regolarmente registrati che quelli clandestini – sono pochissimi (meno del 2% della popolazione) e, di fatto, socialmente irrilevanti.
Coreani e cinesi a parte, ovviamente, gli stranieri (per modo di dire, molti sono di seconda e terza generazione, e in qualsiasi altro paese civile sarebbero diventati cittadini a tutti gli effetti) “invisibili”, per via – almeno per noi occidentali – della difficoltà ad individuarli somaticamente e delle pesanti, a volte davvero crudeli e disumane, discriminazioni cui sono sottoposti. Tipo quella di dover scegliere tra chiedere la cittadinanza, rinunciando però al loro nome e dovendone scegliere uno giapponese, o restare per sempre apolidi, senza un passaporto, con l’obbligo di rinnovare il permesso di soggiorno come fossero stranieri di passaggio. Senza parlare delle violenze verbali e talvolta anche fisiche di cui sono vittime da parte della uyoku, la destra nazionalista e revanchista che ogni tanto razzola per Tokyo e Osaka a bordo di camion paramilitari vomitando insulti dagli altoparlanti chiedendo la cacciata degli “stranieri privilegiati” (sic!) che sfruttano e contaminano il Giappone.

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