Sfumata l’ipotesi di concedere una garanzia statale sui crediti “malati” che ingolfano i bilanci delle banche italiane, per consentirne l’acquisto da parte della Bce, torna in campo l’idea di una bad bank. In pratica una società che, usando denaro pubblico, si faccia carico di aiutare gli istituti di credito a sgravarsi dalle sofferenze, cioè appunto i prestiti difficili o impossibili da recuperare. Che a fine 2014 hanno raggiunto la cifra record di 180 miliardi di euro, contro i 125 del dicembre 2012. Domenica il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, in un’intervista a Repubblica, ha confermato che il governo sta “esaminando varie opzioni, anche tenendo conto delle implicazioni sulle regole europee sugli aiuti di Stato” e riflettendo in che modo “introdurre degli strumenti che vanno sotto il nome generico di bad bank”. Secondo quanto riporta il quotidiano di largo Fochetti, sul piatto ci sono tre possibilità. Tutte, comunque, basate su un identico pilastro: l’uso di soldi dello Stato come garanzia.

La prima è una bad bank vera e propria, quella a cui, a inizio 2014, pensava il governo di Enrico Letta e che era vista con favore dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco. L’idea – poi il premier si dimise e fu archiviata – era di creare una società veicolo che avrebbe emesso titoli garantiti dallo Stato e acquistato i crediti a rischio, cercando poi di recuperarne il più possibile. Uno schema simile a quello usato nel 2012 in Spagna, dove però l’operazione fu portata a termine con soldi del fondo europeo Esm, a cui contribuiscono tutti i Paesi membri dell’Ue. Nella Penisola, invece, la garanzia sarebbe statale. E le eventuali perdite ricadrebbero sulle casse dello Stato, che dovrebbe risarcire chi ha comprato i bond della bad bank.

La seconda via possibile è quella su cui si sono rincorse indiscrezioni due settimane fa, quando sembrava che l’esecutivo fosse intenzionato a inserire nel decreto per attrarre investimenti stranieri in Italia una garanzia pubblica sui crediti a rischio. Escamotage che li avrebbe resi “papabili” per essere acquistati dalla Banca centrale europea nell’ambito del piano di acquisto di Asset backed securities (Abs) lanciato nel settembre scorso. All’ultimo, però, il “pacchetto” sugli investimenti ha cambiato fisionomia e nella versione licenziata dal Consiglio dei ministri il 20 gennaio quella garanzia non c’è.

La terza strada, scrive Repubblica, è quella a cui sembra far riferimento Padoan quando parla di aiuti di Stato: sgravi fiscali a vantaggio delle banche che hanno in bilancio sofferenze e perdite su crediti. Nessun dettaglio, ma a prima vista sembra qualcosa di molto simile a quell’aumento della deducibilità che l’Abi chiedeva a gran voce già nel lontano 2009, durante l’ultimo governo Berlusconi, all’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Poi però l’attenzione si spostò sui Tremonti bond sottoscritti dal Tesoro per salvare il Monte dei Paschi di Siena. E all’epoca quella dei prestiti in sofferenza non era un’emergenza paragonabile a quella di oggi.

Resta da vedere quale opzione sarà scelta dal governo Renzi. Quel che è sicuro che, come evidenziato dallo stesso Padoan, con 180 miliardi di sofferenze sul groppone le banche italiane hanno una buona scusa per continuare a fare credito con il contagocce. Nonostante l’avvio del quantitative easing di Mario Draghi. Di qui l’esigenza di far qualcosa per rimuovere almeno una parte del fardello.

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