Mentre il governo si arrabatta per riuscire a rinviare di qualche mese l’aumento dell’ 1% dell’Iva nessuno vuol parlare del costo dei sussidi alle energie rinnovabili, pari a circa 3 punti di Iva all’anno, che sono stati silenziosamente caricati, nel giro di due-tre anni, sulle bollette elettriche delle famiglie e delle imprese. Forse perché la responsabilità di questa follia, che non darà pressoché nessun beneficio né alla biosfera né alla bilancia dei pagamenti, è condivisa da destra e sinistra.

Il fotovoltaico è partito col decreto Bersani-Pecoraro Scanio che prevedeva come obiettivo il raggiungimento di una potenza istallata di 3 GWh nel 2016: oggi si è già arrivati a 17 GWh. Non si è trattato dunque di una politica voluta e pensata ma semplicemente di una “svista”: mentre crollava il costo dell’investimento non si sono ridotti gli incentivi e si è quindi offerta una magnifica opportunità di lauti e sicuri profitti a tanti, fondi d’investimento, mediatori di terreni, installatori etc., senza nemmeno il tempo per sviluppare un’industria nazionale. In verità il decreto Bersani aveva fissato un limite massimo incentivabile di 1,2 GWh, peccato però che prevedesse, incautamente, di estendere gli stessi incentivi anche a tutti gli impianti completati nei 14 mesi successivi al raggiungimento di quel tetto, senza alcun limite: in quel lasso di tempo si è accumulato quasi metà dell’onere complessivo. Il governo Berlusconi poi, invece di intervenire rapidamente, ha esteso ancor più il periodo di applicazione dei “vecchi” sussidi e li ha poi ridotti ma troppo poco e troppo tardi.

Le sviste di Bersani
Se ai sussidi al fotovoltaico si aggiungono quelli dell’eolico, biomasse, certificati verdi, Cip6 arriviamo a 12 miliardi l’anno (da pagare per i prossimi 20 anni) cui bisognerà aggiungere un altro paio di miliardi l’anno per indennizzare (capacity payments) le centrali termiche che devono stare in stand by per coprire i fabbisogni quando il cielo si annuvola o cala il vento. Un’operazione colossale avvenuta senza alcuna specifica delibera parlamentare ma solo per effetto di decreti ministeriali e gestita “fuori bilancio” in quanto i sussidi vengono addebitati alle bollette tramite la componente A3. Se quest’onere fosse stato definito “imposta ecologica” e assoggettato ad approvazione parlamentare  il Parlamento probabilmente avrebbe esitato ad innalzare di tanto la pressione fiscale. In Italia si producono circa 300 TWh di energia elettrica l’anno che, valutata a 60-70 euro al MWh (costo medio di un’efficiente produzione termoelettrica) equivarrebbe a 18-20 miliardi. I sussidi diretti ed indiretti alle energie rinnovabili (14 miliardi) hanno dunque fatto salire del 70-80% il costo complessivo dell’energia prodotta in Italia (escludendo i costi di trasmissione, commercializzazione etc.): si può ben parlare di un disastro, soprattutto per gli effetti sulla competitività delle imprese. La Banca d’Italia stima che l’energia costi alle imprese italiane il 30% in più della media europea. Germania e Spagna hanno condiviso un’esperienza analoga alla nostra, per il fotovoltaico. In Germania, che pure ha grossi problemi di adeguamento delle reti, hanno ridotto gli incentivi più rapidamente di noi ed hanno caricato i costi soprattutto sulle utenze domestiche, preservando la competitività delle imprese.

Il modello spagnolo
In Spagna buona parte del costo è stato finora coperto dalla fiscalità generale per contenere l’aggravio di costo dell’energia. La necessità di ridurre il disavanzo pubblico ha però costretto il governo spagnolo a tagliare a più riprese i sussidi promessi, l’ultimo taglio di circa 2,7 miliardi è stato deciso a metà luglio. Il governo ha annunciato di voler ridurre selettivamente i sussidi in modo da limitare il profitto pre-tasse del fotovoltaico al rendimento dei titoli di Stato più il 3%. Una misura retroattiva che ha fatto infuriare gli operatori del settore e che potrebbe mettere a rischio in molti casi anche il rimborso dei mutui. Misure retroattive sono odiose e generano ricorsi legali di vario tipo, ma in periodi di crisi eccezionali, quando si deve ad esempio sospendere l’indicizzazione delle pensioni, anche misure eccezionali possono essere giustificate. Perché non cercare di recuperare almeno parte dei sovraprofitti derivanti dagli investimenti già effettuati, nei casi in cui le tariffe concesse appaiano eccessivamente elevate rispetto al costo dell’investimento? Si potrebbero studiare misure di tipo fiscale che non violino la costituzione o parafiscali (ad esempio addossando agli operatori gli oneri per i capacity payments). Occorrerebbe inoltre tagliare con decisione i sussidi per nuovi investimenti. È assurdo, ad esempio, continuare ad elargire sussidi regali alla produzione elettrica da biomasse quando chi conosce il settore sa bene che per far funzionare quegli impianti vengono molto spesso usati prodotti come il mais ed il conseguente aumento di prezzo finisce poi per far chiudere quelle stesse stalle che dovrebbero fornire la gran parte della materia prima. Sono poi impianti che, una volta finiti i sussidi, verrebbero rottamati perché non economici, con ovvio sperpero di risorse per la società. Se si vuol far riprendere l’economia occorre innanzi tutto tornare ad aver rispetto per il ruolo del mercato e smettere di stravolgerlo con norme inventate a tavolino nei gabinetti ministeriali.

Giorgio Ragazzi

Da Il Fatto Quotidiano del 7 agosto 2013 

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