Il Brasile non cresce più a ritmi vertiginosi. E per questo sembra delinearsi un cambiamento del modello macroeconomico, spostando la domanda dal consumo agli investimenti, per aumentare la produttività dell’industria e sopperire alle carenze infrastrutturali. Ne è un esempio la legge sui porti.
di , lavoce.info, 18 Giugno 2013

Cresce l’occupazione. E anche l’inflazione
 
Da tempo protagonisti dell’economia mondiale, i paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) negli ultimi tempi mostrano un deciso, generalizzato rallentamento della crescita. 
Se restringiamo la nostra attenzione al Brasile, che all’interno di questo gruppo è quello più “occidentale”, vediamo che sin dal finire del 2012 la crescita del Pil, nel decennio precedente attestatasi poco sotto il 4 per cento, si è fermata a un modesto 0,9 per cento. Se è vero che parallelamente l’occupazione toccava livelli record (la disoccupazione misurata lo scorso dicembre segnava il 4,6 per cento, il minimo storico assoluto), quello che continua a preoccupare le autorità di politica economica è l’inflazione, da diversi anni vicina al 6,5 per cento, limite superiore del margine di oscillazione da tempo fissato dal Banco Central, con obiettivo al 4,5 per cento e tolleranza di 2 punti percentuali. A inizio anno le stime per il 2013 preannunciavano una ripresa abbastanza decisa, ma un primo semestre deludente ha fatto rivedere le previsioni di crescita al ribasso per ben tre volte, da ultimo al 2,77 per cento. (1)

Crescita annua del Pil

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Dati: World Bank, 2012; *FMI, World Economic Outlook Update, gennaio 2013; ** Bollettino Focus del Banco Central do Brasil, 27/5/2013

L’inflazione in Brasile

Cattura2
Dati: Banco Central do Brasil, 2013; Bollettino Focus del Banco Central do Brasil, 27/5/2013

Dai consumi agli investimenti

Che succede allora in Brasile? Dall’arrivo al potere del Partido dos Trabalhadores, con la presidenza di Lula dal 2003 al 2010 e di Dilma Rousseff dal 1° gennaio 2011, gli sforzi di politica economica si sono concentrati sull’inclusione sociale di vaste masse di diseredati e hanno dato ottimi frutti. Ricerche della Fundação Getúlio Vargasstimano stimano che in questo periodo quasi 40 milioni di persone siano uscite dalla povertà, grazie al successo di estesi programmi di conditional cash transfer, che hanno fatto del Brasile una referenza mondiale per questo tipo di politiche sociali. Ciò, insieme alle liberalizzazioni del governo precedente (i due mandati di Fernando Henrique Cardoso, tra il 1995 e il 2002), ha creato le condizioni per il balzo dell’economia brasiliana dell’ultimo decennio, basato sul circolo virtuoso credito abbondante, accesso al consumo delle classi popolari, aumento dell’occupazione.

Allo stesso tempo, sia per sostenere la domanda interna, sia per sopperire a una delle storiche carenze del sistema produttivo brasiliano, con un occhio ovviamente anche alle scadenze elettorali, il governo del Pt sin dal 2007 ha avviato una serie di imponenti piani di investimenti in infrastrutture. Prima il Plano de Aceleração do Crescimento (Pac), poi il Pac 2, infine gli investimenti legati ai grandi eventi sportivi dei prossimi anni (Mondiali di calcio 2014, Olimpiadi di Rio 2016), hanno iniettato nell’economia brasiliana oltre due trilioni di reais (oltre 800 miliardi di euro), in progetti che comprendono edilizia residenziale, trattamento dei rifiuti, trasporti pubblici, energia, sgravi fiscali a settori di rilievo strategico, realizzazione di impianti sportivi.

Il modello però si è esaurito a mano a mano che l’economia ha assorbito la manodopera disponibile e l’inflazione, alimentata dalla domanda di beni di consumo e dalla crescente carenza di forza lavoro, ha iniziato a rialzare la testa. Gli imprenditori, dal canto loro, da tempo lamentano una cornice sfavorevole all’investimento privato, causa imposizione elevata e caotica, burocrazia soffocante, dirigismo statale, fattori che condannano il paese a un poco lusinghiero centotrentesimo posto nella classifica Doing Business elaborata dalla Banca Mondiale. (2)

Il dilemma, che paralizzerebbe qualsiasi decisore di politica monetaria, tra privilegiare occupazione e crescita, oppure il controllo dell’inflazione, è acuito in Brasile dall’approssimarsi delle elezioni presidenziali, fissate per l’ottobre 2014. Il ricordo dell’iperinflazione di fine anni Ottanta è troppo recente perché la presidente uscente possa permettersi il rischio di un avvio di campagna con i prezzi fuori controllo. Fonti citate dal giornale Folha de S. Paulo riferiscono che una caduta di 10 punti nella popolarità della presidente Dilma, rilevata in aprile in sondaggi riservati del Planalto, hanno determinato un deciso mutamento di rotta nella politica economica. (3) La stretta monetaria ha visto il Banco Central rialzare il tasso di riferimento del mercato (tasso Selic) per due volte consecutive, portandolo lo scorso 29 maggio all’8 per cento, dopo una discesa sostanzialmente ininterrotta che da inizio 2006 lo aveva portato dal 17,25 al minimo storico del 7,25 dell’ottobre scorso.

Sembra insomma si stia delineando in Brasile un cambiamento del modello macroeconomico di fondo. Il governo di Dilma Rousseff sembra essersi reso conto che l’effetto positivo derivante dall’inclusione di milioni di persone nella forza lavoro è finito, la domanda di beni di consumo di queste fasce della popolazione non può più, da sola, sostenere la crescita. E dunque che è necessario spostare finalmente la domanda dal consumo agli investimenti, per aumentare la produttività dell’industria e sopperire alle carenze infrastrutturali di cui sopra.

Per questo, negli ultimi mesi l’attenzione del governo si è concentrata sulla creazione di un ambiente più favorevole all’investimento privato. Ne è un esempio concreto la nuova legge sulla gestione dei porti, infrastrutture davvero strategiche per il paese, se si considera che di là passa il 95 per cento del commercio estero brasiliano, che tuttavia a livello mondiale si colloca al centotrentesimo posto (su 144 paesi censiti) nella classifica che valuta l’efficienza del comparto. (4)

È una legge varata proprio il 4 giugno, dopo un durissimo iter parlamentare, grazie alla caparbietà con cui Dilma Rousseff l’ha sostenuta, definendola “vitale per la modernizzazione del paese”: prevede una decisa privatizzazione del settore, sfidando una parte importante della base elettorale del Pt, i sindacati che a lungo in passato hanno bloccato qualsiasi tentativo di riforma del settore. La legge introduce regole più snelle per le concessioni dei porti pubblici e l’apertura di porti privati, misure di rilevanza decisiva in un paese che ha oltre 7mila chilometri di coste e decine di fiumi navigabili per migliaia di chilometri. La scommessa è consentire ai prodotti brasiliani un accesso più rapido ed economico ai mercati mondiali, incidendo direttamente sulla loro competitività.

Nonostante questo panorama di luci e ombre, il Brasile continua a essere una destinazione appetibile per gli investitori stranieri. Nel 2012, gli investimenti diretti esteri sono stati pari a 65,2 miliardi di euro, un dato in lieve flessione sul 2011, ma eccezionale se comparato con quelli di Usa (-25,3 per cento) e Ue (-24,8 per cento). (5) La perdurante fiducia degli investitori esteri, che costituisce un’importante fonte di risorse per la crescita dell’economia brasiliana, potrebbe tuttavia non bastare in mancanza di un deciso cambio di rotta nella politica economica.

(1) Vedi il bollettino Focus del Banco Central, pubblicato il 27 maggio 2013, che riunisce settimanalmente le previsioni di circa cento istituzioni finanziarie del paese
(2) http://www.doingbusiness.org/rankings; l’Italia, sia detto per inciso, occupa la settantareesima posizione
(3) Folha de S. Paulo, “Queda em popularidade por causa de inflação fez Dilma apoiar o Banco Central”, editoriale anonimo, 2 giugno 2013
(4) Rapporto della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite, pubblicato il 14 maggio scorso

 

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