Ci sono poche cose che, almeno a parole, vanno più di moda in Italia del termine “merito”. Nel campo della scuola italiana la declinazione del termine è “Invalsi” i test che misurano le competenze di alunni e docenti. Forse però non è tutto oro quello che luccica o almeno questo è quello che sostengono gli esperti intervenuti al convegno nazionale di formazione su questo tema organizzato dal Centro Studi per la Scuola Pubblica di Bologna per sensibilizzare i docenti e l’opinione pubblica rispetto all’approccio educativo celato dietro i test Invalsi. Secondo uno dei loro sostenitori, Piero Ichino, i test  sono sì test incompleti ma anche i migliori a nostra disposizione. Il rischio in prospettiva prefigurato invece dagli oppositori dell’Invalsi è un’educazione sul modello americano con scuole di eccellenza e scuole pubbliche la cui attività sia tutte orientata al superamento dei test da cui deriva la valutazione dei docenti e dell’istituto stesso, un panorama ben illustrato da documentari come Waiting for superman di Davis Guggenheim.

Le domande contenute nei test assumerebbero un’importanza fondamentale e a seconda del loro contenuto anche ideologico, in quanto rivelatrici di un approccio educativo ben preciso. Per capire quale, è necessario compiere a ritroso la loro storia. I test  infatti sono solo l’ultimo passo di un cammino molto più lungo che dura da alcuni decenni, un percorso che rappresenta un cambio di paradigma nel campo dell’educazione.  Il mutamento segue le linee guida europee sull’educazione approvate dopo il trattato di Maastricht nei primi anni novanta ed elaborate nel decennio precedente dall’Ert (European Round Table of Industrialist) una potente lobby attualmente presieduta dal presidente della Ericsson Leif Johansson e dentro la quale trovano posto anche gli italiani Franco Bernabè, Rodolfo De Benedetti, John Elkann, Paolo Scaroni e Carlo Bozotti.

Lo scopo dell’Ert sin dalla sua fondazione nel 1983 è promuovere la modernizzazione e la competitività dell’economia europea attraverso una maggiore flessibilità del lavoro, riforme pensionistiche, investimenti infrastrutturali e appunto una riforma del sistema educativo. A partire dal 1987 l’Ert ha prodotto diversi influenti rapporti sullo stato dell’educazione in Europa. Due i punti chiave delle richieste degli industriali: mettere a profitto l’enorme mercato dell’istruzione (oltre 2 miliardi di dollari su scala mondiale) e creare dei lavoratori flessibili adatti ad un mercato del lavoro precarizzato attraverso il mutamento del quadro di riferimento delle legislazioni nazionali sul lavoro.

Le istituzioni europee incominciano ad occuparsi di educazione dalla stesura dell’articolo 126 del Trattato di Maastricht (1992) che accorda per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia di insegnamento, per questo viene creata “la Direzione generale dell’Educazione, della Formazione e della Gioventù” una sorta di “ministero europeo dell’istruzione” che nel decennio successivo produce numerosi rapporti che accolgono sostanzialmente le tesi proposte dall’Ert. Il 22 e 23 marzo  2000 la presidenza del consiglio europeo riunita in sessione straordinaria  a Lisbona giunge alla seguente conclusione «L’Unione si è ora prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo».

I capisaldi di questo progetto sono l’educazione permanente e un approccio basato sulle competenze piuttosto che sulle conoscenze, un saper fare al posto di un sapere come ribadito dalla commissione europea nel 2001 “la necessità di spostare la priorità dalla ‘conoscenza‘ alla ‘competenza’ e dall’insegnamento all’apprendimento”. E’ in questo filone che s’inserisce il test Invalsi, che presenta diversi problemi tecnici fra cui come sostiene Giorgio Israel, ordinario di matematica all’università La Sapienza  di Roma, la nebulosa differenza fra competenza e conoscenza, e la disparità denunciata da Luca Ricolfi su la Stampa  fra Nord e Sud nella severità dei controlli durante i test.

Ancora più importanti due aspetti fondamentali di questo nuovo modello educativo, il primo è il passaggio da un approccio qualitativo che punta a formare un cittadino nella sua completezza e capacità critica, requisito fondamentale per una democrazia propriamente detta, ad un modello educativo le cui priorità sono definite dal mondo economico e in termini puramente funzionali ai processi produttivi. Il secondo punto è l’eliminazione di quello che la filosofa americana Martha Nussbaum nel suo ultimo libro “Non per profitto” (Mulino) definisce “sapere socratico”, ovvero la capacità di problematizzare e riconoscere pari dignità alle prerogative degli altri oltre che alle proprie , un sapere umanistico essenziale per il buon vivere.

Discorsi che suonano  quasi anacronistici in tempo di crisi e nel mezzo di quella che Noemi Klein definiva “Shock Economy” ma come sostiene la Nussbaum “Un’economia forte dev’essere un mezzo per raggiungere finalità umane, e non un fine in sé, la questione più importante è la stabilità delle istituzioni democratiche” stabilità sempre più a rischio in un mondo di persone non istruite per altri scopi che non siano la loro funzione produttiva. Senza contare, sostiene ancora la Nussbaum che “I più importanti dirigenti d’azienda hanno capito da tempo che una buona capacità d’immaginazione è il pilastro di una buona cultura degli affari. L’innovazione richiede intelligenze flessibili, aperte e creative”. L’esatto contrario di quello che si misura con test come l’Invalsi.

di Daniele Rielli

Articolo Precedente

L’assemblea dell’Università del bene comune. Il dibattito in diretta streaming

next
Articolo Successivo

Trasparenza in Ateneo. La denuncia di due docenti: “E’ un tabù”

next