Chi segue i miei occasionali commenti di calcio sa che non sono certamente un estimatore di Massimiliano Allegri: un allenatore che non insegna calcio, privo di capacità strategiche e che tende a dissipare talenti (ultimi i casi di Federico Chiesa, il migliore della generazione italiana di mezzo, e Dusan Vlahovic, il serbo che ha tutto per diventare un grande bomber, lasciati immalinconire in panchina o soffocati in schemi di gioco penalizzanti). Semmai un gestore burocratico di figurine Panini per assemblaggi purchessia.

D’altro canto mi sembra profondamente ingiusto scaricargli per intero le responsabilità del declino juventino, quando il suddetto mister ha fatto esattamente quello che gli era stato richiesto. Ossia tradurre sul campo la filosofia di chi lo aveva ingaggiato. Sicché i primi da esonerare sarebbero proprio i dirigenti della società, incapaci di elaborare una scuola di pensiero calcistico originale come marchio di riconoscibilità del club.

Un club che ha sempre vinto limitandosi a esercitare il proprio strapotere economico nell’acquisto del meglio su piazza. Come unico viatico per l’unica cosa che conta: vincere. Vincere ad ogni costo. Il che ha anche significato truccare le carte, alla faccia di un sempre sbandierato e mai specificato “stile Juventus”, tanto nel gioco come nell’amministrazione. Nella galleria della spregiudicatezza e dell’arroganza che va (almeno) da Luciano Moggi ad Andrea Agnelli.

Dunque, vincere comunque. Alla faccia della filosofia di gioco e di un imprinting riconoscibile. Cui il cinismo opportunistico (che tanto piace ai milioni di supporter affascinati dal parteggiare per il potente arrogante e prevaricatore) si è sempre tradotto in una sorta di machiavellismo applicato al football: il fine giustifica i mezzi. Parola d’ordine a cui l’Allegri – oggi reietto – si è attenuto puntualmente. Rivelando una cultura calcistica retrò, mentre le nuove stagione del calcio – promosse da innovatori, da Pep Guardiola a Jürgen Kloop (ma anche i nostri Giampiero Gasperini, Roberto De Zerbi; soprattutto quel Carlo Ancelotti che lo sfascia-squadre partenopeo Aurelio De Laurentis definiva “bollito”) – rendevano assolutamente obsoleto questo modo di pensare meramente speculativo. Non a caso la forza capitalistica juventina pesa in Italia ma non nelle competizioni europee.

Metafora dei disastri prodotti dalla cultura imperante nelle famiglie che reggono le sorti del vasto possedimento calcistico, che fu provincia di un vastissimo impero industriale: gli Agnelli-Elkann più parentado (Nasi, Fürstenberg, ecc.). Ossia la filosofia del “pago e dunque comando” (alla faccia di qualsivoglia stakeholder), che sul campo diventa la tracotanza del “io sono io e voi non siete un c….

Ossia la perfetta specularità della “cultura Juventus” con la “cultura Fiat” (l’impresa poi venduta ai francesi di Peugeot dopo un secolare taglieggiamento degli italiani, sotto forma di sussidi e casse integrazione, e che continuano nei ricatti di Stellantis sul mantenimento di qualche produzione nel nostro Paese). Per cui puoi cacciare Allegri (e così provare a risparmiare sui suoi emolumenti contrattuali fino al 2025) ma non risolvi il problema del ritardo culturale della società. Che non può essere sanato da un semplice cambio di allenatore. Mentre il contesto resta immutato.

Oggi si parla di un trainer giovane e innovativo come Thiago Motta. Ma rischia di restare una foglia di fico se le direttive resteranno immutate e i criteri non saranno messi radicalmente in discussione. Se non si aggiornerà il pensiero-Juventus andando a studiare gli esempi di successo che ci vengono dall’estero, Dalla prima rivoluzione che spalancò l’avvento di un nuovo modo di concepire calcio, legato alla figura profetica di Johan Cruijff e del suo Barcellona.

Insomma, se una società di calcio vuole entrare in questa dimensione, deve praticare il messaggio a tutti i livelli, dal vertice dirigenziale fino agli allenatori delle giovanili.

Del resto non ha insegnato nulla l’esperimento fatto con un allenatore non distante dal credo calcistico di chi quest’anno ha fatto miracoli a Bologna? Ossia quel Maurizio Sarri che i miracoli li aveva fatti nel Napoli e a Londra nel Chelsea, e che comunque a Torino vinse pure uno scudetto. Ma fu cacciato perché non lucidava gli scarpini alla figurina Panini per eccellenza: quel Cristiano Ronaldo che pretendeva di avere l’intera squadra al proprio servizio e ormai trasformato in un titolo borsistico.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Claudio Ranieri non passa mai di moda: la salvezza del suo Cagliari è l’ennesima lezione di calcio (e di stile)

next
Articolo Successivo

Oggi, caro Max Allegri, sei indifendibile. Ti sei cacciato in un gioco al massacro devastante

next