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“Gli antibiotici non funzionano più, un’infezione su sei non risponde più alle cure. Siamo a un punto critico, la minaccia supera i progressi della medicina moderna”: l’allarme dell’Oms e il parere dell’esperto

Per l'infettivologo Roberto Cauda bisogna "ridurre l’uso inappropriato di antibiotici in medicina umana, ma anche limitarne l’impiego negli allevamenti e nell’agricoltura"
“Gli antibiotici non funzionano più, un’infezione su sei non risponde più alle cure. Siamo a un punto critico, la minaccia supera i progressi della medicina moderna”: l’allarme dell’Oms e il parere dell’esperto
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Un’infezione su sei nel mondo non risponde più ai trattamenti antibiotici. In alcune regioni, addirittura una su tre. È il dato più inquietante contenuto nel nuovo Global Antibiotic Resistance Surveillance Report 2025 dell’Organizzazione mondiale della sanità, che descrive un fenomeno in crescita costante: la resistenza antimicrobica (Amr) sta erodendo le basi della medicina moderna. Batteri comuni come Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae – responsabili di sepsi, infezioni urinarie e respiratorie – diventano sempre più difficili da curare, anche nei Paesi avanzati. Un rischio che, avverte l’Oms, potrebbe riportarci a un’epoca pre-antibiotica. Ne parliamo con Roberto Cauda, infettivologo, Università Campus Biomedico e consulente per le malattie infettive dell’European Medicines Agency (EMA).

L’esperto: “La resistenza segue l’antibiotico come un’ombra”

Professor Cauda, il nuovo rapporto dell’Oms parla di una “minaccia che supera i progressi della medicina moderna”. Quanto è concreto oggi, anche in Italia, il rischio di tornare a un’era pre-antibiotica?
“Il rischio è reale, e se ne discute ormai da molti anni. Come una volta è stato detto efficacemente, ‘la resistenza segue l’antibiotico come un’ombra’. Al di là della metafora, si tratta di una minaccia concreta che potrebbe vanificare i risultati straordinari raggiunti in decenni di medicina moderna. Fino a non molti anni fa, infatti, le infezioni batteriche rappresentavano una delle principali cause di morte. L’Oms ha richiamato l’attenzione in particolare su Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae, ma anche su altri batteri, come gli stafilococchi aurei e quelli coagulasi-negativi, che si stanno dimostrando sempre più resistenti. Il fenomeno incide soprattutto negli ospedali, dove il consumo di antibiotici è più elevato e le infezioni più gravi – come le sepsi – colpiscono i pazienti più fragili. Ma non dobbiamo dimenticare anche le infezioni chirurgiche e urinarie, che rappresentano una quota importante del problema”.

Usarli solo quando servono

E. coli e Klebsiella pneumoniae sono i simboli della nuova resistenza: cosa comporta per i reparti ospedalieri e per la gestione delle infezioni più gravi come la sepsi?
“Questi batteri sono un segnale d’allarme per l’intero sistema sanitario. La loro diffusione rende più complessa la gestione delle infezioni sistemiche e limita le opzioni terapeutiche a disposizione dei medici. Purtroppo negli ultimi decenni la ricerca di nuove molecole antibiotiche ha rallentato, lasciandoci con un arsenale terapeutico più ristretto. Questo impone un utilizzo molto più oculato dei farmaci esistenti: servono protocolli di impiego mirato, in modo da non favorire ulteriormente l’emergere di ceppi resistenti. L’obiettivo è usare l’antibiotico solo quando è davvero necessario, e sempre sulla base di una diagnosi microbiologica precisa”.

Antibiotico-resistenza e allevamenti intensivi

L’Oms richiama all’approccio “One Health”, che integra salute umana, animale e ambientale. In concreto, cosa dovrebbe cambiare nelle politiche sanitarie italiane per contenere la diffusione dei batteri resistenti?
“Il concetto di One Health è fondamentale, perché la salute dell’uomo non può essere separata da quella degli animali e dell’ambiente. Già alla fine degli anni Novanta si discuteva, anche a livello europeo, della necessità di affrontare l’antibiotico-resistenza come un rischio globale. Oggi è indispensabile un’azione coordinata: ridurre l’uso inappropriato di antibiotici in medicina umana, ma anche limitarne l’impiego negli allevamenti e nell’agricoltura. Bisogna inoltre incentivare la ricerca di nuovi antibiotici e promuovere campagne di prevenzione che partano dall’igiene, dalle vaccinazioni e da una corretta educazione sanitaria.

Il ruolo dei vaccini

Nel nostro Paese l’uso inappropriato degli antibiotici resta elevato, soprattutto in ambito extra-ospedaliero. Quali strategie — comunicative, prescrittive e formative — possono davvero ridurre questo abuso senza compromettere l’accesso alle cure?
La prima regola è la prudenza. Gli antibiotici vanno usati quando servono davvero, mai in modo automatico o “preventivo”. In questo periodo, ad esempio, con l’arrivo della stagione influenzale, si tende spesso a prescriverli o ad assumerli anche per infezioni virali, come l’influenza, che non rispondono affatto a questi farmaci. Servono più strumenti diagnostici rapidi e diffusi sul territorio, capaci di identificare in poche ore il tipo di batterio e la sua sensibilità agli antibiotici. In questo modo è possibile scegliere la terapia più mirata, evitando trattamenti inutili o inefficaci. Un altro fronte cruciale è la prevenzione attraverso i vaccini. La vaccinazione antinfluenzale, per esempio, riduce il rischio di sovrainfezioni batteriche e, di conseguenza, il ricorso agli antibiotici. Lo stesso vale per il vaccino antipneumococcico, che ha dimostrato di diminuire non solo i casi di malattia ma anche la diffusione di ceppi resistenti.

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