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“Non una donna morta di più”, così le poesie di Susana Chávez Castillo urlano messaggi di vita e libertà

La poetessa messicana per prima scrisse quello che poi è diventato lo slogan contro la violenza sulle donne e venne uccisa a Ciudad Juarez nel 2011. Sur Edizioni ha pubblicato la sua raccolta di poesie "Prima Tempesta"
“Non una donna morta di più”, così le poesie di Susana Chávez Castillo urlano messaggi di vita e libertà
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Urlata, scritta su striscioni, utilizzata come hashtag. La frase “Ni una màs” (“Non una di meno”), è uno dei simboli delle battaglie contro la violenza sulle donne. Corre da una piazza all’altra, da un Paese all’altro, unisce vite e storie diversissime nel nome di una lotta comune. Per la maggior parte delle narrazioni, l’origine di questa frase si ritrova in un collettivo Argentino che nel 2015 cominciò a usarlo come slogan. Ni una mas, ni una menos. Non una morta in più, non una donna di meno. C’è però un prima, una voce che quelle parole le ha dette in anticipo di quasi vent’anni. Le ha urlate, come ha urlato una libertà che poi ha pagato con la vita.

Era la voce di Susana Chávez Castillo, poetessa messicana di Ciudad Juarez, quella che è conosciuta come la “città più pericolosa del mondo”. Una città dove Susan è nata e cresciuta, dove ha scritto, parlato, raccontato. La città dove è morta, uccisa in una città che conta decine di femminicidi ogni anno. La vita di Susan Chávez si è fermata il 6 gennaio 2011, a 36 anni. Quando l’hanno trovata al suo corpo mancava una mano, forse per cancellare fisicamente quell’arto che le aveva permesso di scrivere e descrivere, raccontare. Perché quei 36 anni Susana li aveva passati a fare questo, a usare le parole. Figlia del suo tempo, nei primi anni 2000 Susana apre un blog: “Primera tormenta”, ovvero “prima tempesta”. È la sua voce regalata al mondo, a quel web che permette a tutti di raccontarsi. Fermo al 2005, il Blog di SuChaCa, il nome che aveva scelto per la sua vita in rete, è ancora lì, testimone del suo passaggio sulla terra, del suo tempo mortale.

Nell’ottobre 2024 Primera Tormenta è diventata Prima Tempesta, le poesie di Chávez Castillo sono state portate in Italia da SUR, per la traduzione di Concita de Gregorio. Sono appena un centinaio di pagine quelle dedicate alla poesia. Dentro c’è la vita di Susana Chavez Castillo, quella privata e quella pubblica, nel senso più ampio possibile del termine. “Mentre altri facevano fiori con i tovaglioli, SuChaCa ci scriveva sopra poesie mentre parlava con i camerieri. Non era insolito che poi le offrisse in cambio una birra” , racconta nella prefazione Hilda Sotelo. La poesia come moneta, merce di scambio, il riconoscimento del suo valore al pari del denaro che muove il mondo, forse anche di più. Non è un luogo e un tempo semplice per la poesia, soprattutto per la poesia di una donna. Sempre Hilda Sotelo, amica di Chávez Castillo dal 1995 e poi fino all’omicidio, racconta: “Nei pochi laboratori e circoli letterali di Ciudad Juarez SuChaCa fu trattata con sdegno e disprezzo”. La città in cui crescono e si fanno donne non guarda alla cultura come speranza e opportunità. “In città c’erano soltanto tre piccole biblioteche – due universitarie, una pubblica- e tre librerie – una di queste, per giunta, era anche gelateria”. Lì dove, giorno dopo giorno, mese dopo mese, il numero di donne uccise aumenta.

Da qui Susana Chávez Castillo con le parole può fare solo una cosa: raccontare quel che accade. Il suo non è racconto giornalistico, non è reportage, non è studio. È più l’occhio interno di chi sa e sente la necessità di portarlo all’esterno. Non per obbligo né per mestiere, ma per senso di vita, di collettività. Del racconto sociale che Susana Chávez Castillo fa nelle sue poesie, l’esempio più lampante si ritrova in “Uccisioni”, un lungo componimento che ci porta in giro per Ciudad Juarez, nelle strade intrise di violenza e paura, nella quotidianità di chi ci è nato e ha imparato a vivere, ché vivere, anche nella città più pericolosa al mondo, è una cosa che si impara. Si deve imparare. Anche se non si è d’accordo, anche se si vorrebbe altro.

Se la violenza permea le strade e intanto la vita prosegue, lo stesso accade per Susana Chávez Castillo e la sua poetica. Ci sono amore, passione, erotismo. Ci sono uomini e donne, come spiega anche Concita de Gregorio nell’introduzione “Susana ha amato principalmente donne, ma non sono soltanto donne i destinatari delle sue liriche. In qualche caso, anzi, sono certamente uomini”. Segno, ancora, qualora ce ne fosse bisogno, di una vita piena, complessa, non rinchiudibile in una definizione. Così come non lo è la sua città, o il Messico. Né la violenza di genere o la questione femminista. Niente è incasellabile, raccontabile in un modo solo, descrivibile in maniera monolitica. Tanto lei quanto la sua poetica sono omnicomprensive, racchiudono in sé un’esperienza totale di vita, privata e pubblica. Di tutta questa vita spesso si ricorda solo il finale, quel giorno di gennaio, la violenza. Fa più scalpore della bellezza della poesia, fa più rumore delle parole di una donna, di una delle tante, ma non è il rumore che serve. Quel che serve, di Susana Chávez Castillo e di tante altre, è il ricordo della vita. Dei passi fatti nel mondo, di quanto han lasciato. La morte violenta è l’atto ultimo, ma non esclude tutto il prima. Se ancora si muore “perché si è donna” è di quell’esser donna che bisogna continuare a parlare.

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