È difficile stabilire dove sia il baricentro, nello spettro di ragioni che hanno determinato la fulminea caduta del regime di Bashar Al Assad, in Siria. La sorprendente rapidità dell’avanzata di Hayat Tahrir Al Sham (HTS) si deve senza dubbio alla accresciuta professionalizzazione dei miliziani in questi anni di asserragliamento nella provincia di Idlib, ma ciò non sarebbe bastato, in assenza di altri due elementi: il ruolo dell’intelligence militare di altri Paesi (Turchia? Israele?) nel facilitarla e soprattutto la totale inconsistenza dell’esercito lealista, a cui vanno probabilmente aggiunti l’indebolimento militare iraniano (e del suo alleato libanese, Hezbollah) e il graduale alleggerimento dell’impegno russo. E forse anche della predilezione russa per Al Assad come unico garante possibile dei propri interessi militari (la base di Tartous).
Una premessa appare utile ad introdurre il tema militare. Se è vero che rispetto ad una decina di anni fa i gruppi armati delle opposizioni siriane erano meglio organizzati, più esperti e meglio armati, oltre ad esser ovviamente motivatissimi, per la base di sostegno ad Al Assad, specialmente nella comunità alawita, le cose sono cambiate in peggio: in un Paese distrutto, sotto sanzioni, in cui ormai il 90% dei cittadini viveva molto al di sotto della soglia di povertà, solo una piccola frazione di siriani afferenti ai circoli più prossimi agli Al Assad si sono effettivamente arricchiti, mentre per gli altri, anche nella comunità alawita, le condizioni di vita sono precipitate. Come ricorda Charles Lister, ai tempi del cessate il fuoco mediato da Russia e Turchia ad inizio 2020, un dollaro equivaleva a 1150 lire siriane; lo scorso 4 dicembre, un dollaro si cambiava con 17500 lire siriane.
Con le condizioni di vita è precipitata anche la già flebile motivazione di un esercito affamato, esausto, a cui da 12 anni era stata tolta la carne dal rancio, e che nel 2015 aveva di fatto dichiarato un coma irreversibile, l’impossibilità di combattere senza un ulteriore sostegno esterno, arrivato poi dai cieli con l’intervento russo, e spingendo analisti militari russi a suggerire in alcuni casi “la completa sostituzione dell’Esercito siriano”. Un Esercito in cui era dilagato il consumo di Captagon, una anfetamina di cui secondo diversi report la Quarta divisione corazzata – guidata dal famigerato Maher Al Assad, fratello di Bashar – era divenuta produttrice.
In questi anni Al Assad non ha fatto quasi nulla per ravvivare relazioni deteriorate, per rassicurare o coinvolgere. Tanto sul piano esterno, quanto sul piano interno. Tanto con la Lega Araba, che lo aveva riaccolto, o con l Turchia, quanto con le comunità e le personalità locali che hanno storicamente rafforzato i meccanismi di lealtà al regime. Si è chiuso in una bolla di allerta, affidandosi integralmente ai russi, diventandone del tutto dipendente – ed è a Mosca che Al Assad ha avuto asilo, dopo esser fuggito dal Paese lo scorso sabato – e cedendo in comodato d’uso gratuito all’alleato iraniano – che ha tuttavia investito miliardi di dollari in Siria – ampie aree del sud e delle vie di comunicazione con il Libano e l’Iraq.
Nessun esercito, nel lungo periodo, può combattere per un leader a cui non riesce oggettivamente a riconoscere una residua autorità. Ancor meno, se quell’esercito è male armato, mal pagato, persino malnutrito. E non sembra nemmeno del tutto corretta l’idea secondo cui questa offensiva abbia colto di sorpresa: i piani di HTS erano noti da metà ottobre, quando fu Ankara ad intervenire informando Mosca, che poi bombardò le loro postazioni. Sembra però plausibile che gli stessi miliziani siano rimasti sorpresi della rapidità con cui è caduta Aleppo – che sarebbe stata l’obiettivo dell’avanzata – e che ciò li abbia poi motivati a proseguire oltre.
Alle Forze armate siriane è tuttavia rimasto un residuo realismo, che di fronte all’avanzata degli uomini di Ahmed Al Shara’a (il vero nome di Abu Muhammad Al Jowlani) le ha spinte in gran parte dei casi ad arrendersi ancor prima di ingaggiare combattimenti, evitando ulteriori spargimenti di sangue. Circa cinquecentomila siriani sono morti dal 2011 in Siria, e oltre metà della sua popolazione è stata sfollata.
La debolezza dell’Esercito siriano e l’indisponibilità dei suoi alleati – oltre al ritiro un paio di mesi fa dei rimanenti miliziani di Hezbollah, richiamati in Libano per fronteggiare l’invasione di terra israeliana – è il riflesso di una realtà che il mondo aveva già imparato con movimenti come Hezbollah: oggi esistono milizie, eserciti non regolari, che in alcuni casi sono equiparabili o persino più disciplinati di alcuni eserciti regolari.
In oltre cinque anni, i miliziani di HTS, oltre a partecipare nel “governo di salvezza nazionale“, hanno avviato nella provincia di Idlib non solo campagne di reclutamento – in un tessuto sociale già di per sè storicamente ricettivo all’ostilità agli Al Assad – ma anche un’Accademia militare, con campi di addestramento. Hanno messo in piedi nuove unità, come le Forze speciali Asa’ib al Hamra (Bande rosse), che hanno guidato l’avanzata nelle ore diurne e che si alternavano con le Saraya al Harari (la Brigata termica), attive di notte, i cui circa 500 uomini erano dotati di armi con visori notturni, o quelle che operavano missili cruise autoprodotti, in grado di generare esplosioni paragonabili ad un’autobomba.
Oppure come la Kata’ib Shaheen (la Brigata del Falco), responsabile degli efficientissimi droni suicidi – ma anche da ricognizione – Shaheen, secondo gli analisti un elemento chiave nell’avanzata. Gli Shaheen, muniti di una telecamera che trasmette sullo schermo del pilota a terra, in grado di viaggiare per quasi 50 km, sono stati utilizzati per colpire blindati e carri armati – persino un elicottero – con assalti coordinati, facendo collassare le linee del fronte e spianando la strada alle operazioni terrestri. ll comandante di HTS, Hassan Abdul Ghani, su X lunedì scorso aveva scritto che un drone Shaheen era stato addirittura in grado di colpire un meeting privato di alti ufficiali della Guardia Repubblicana, nella provincia di Hama.
Ironia della sorte, i droni Shaheen sono stati sviluppati dagli ingegneri di HTS utilizzando come modelli i droni iraniani inesplosi nell’area di Idlib. Proprio come a loro volta, quasi un ventennio fa, gli iraniani avevano sviluppato i loro primi droni a partire da quelli americani e israeliani.