Svolti i funerali, è bene ricordare quale terribile eredità nel campo dei diritti umani l’ex presidente iraniano Ebrahim Raisi abbia lasciato.

Per 44 anni – ossia dal 1980, quando appena ventenne venne nominato procuratore generale di Karaj – Raisi è stato direttamente o indirettamente coinvolto nella sparizione forzata e nell’esecuzione extragiudiziale di migliaia di dissidenti politici, oltre che nella tortura e nell’uccisione illegale di migliaia di manifestanti. Ha inoltre perseguitato con violenza donne e ragazze che sfidavano l’obbligo d’indossare il velo.

Nel 1988 Raisi fece parte della “commissione della morte” che ordinò la sparizione forzata e le esecuzioni extragiudiziali di diverse migliaia di dissidenti politici nelle prigioni di Evin, a Teheran e Gohardasht, nella provincia di Alborz, tra la fine di luglio e l’inizio di settembre di quell’anno. Da allora, i sopravvissuti al “massacro delle prigioni” e le famiglie delle vittime sono stati crudelmente privati della verità, della giustizia e della riparazione per decenni e hanno subito persecuzioni per aver cercato di ottenere l’accertamento delle responsabilità.

Trent’anni dopo, nel maggio 2018, Raisi difese pubblicamente quelle uccisioni di massa, descrivendole come “una delle conquiste di cui essere orgogliosi”. In un rapporto del novembre di quell’anno, Amnesty International chiese che Raisi fosse indagato per crimini contro l’umanità, tra cui sparizione forzata, persecuzione, tortura e altri atti disumani, fra i quali anche la sistematica occultazione della sorte delle vittime e del luogo in cui si trovano i loro corpi.

Come capo del potere giudiziario, dal 2019 al 2021, Raisi ha diretto un furibondo sistema repressivo che ha ordinato decine di migliaia di arresti, detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture e altri maltrattamenti, processi gravemente iniqui, condanne a morte e punizioni che violano il divieto di tortura e altri maltrattamenti, quali frustate, amputazioni e lapidazioni.

Sotto la sua supervisione, il potere giudiziario ha garantito impunità totale ai funzionari governativi e alle forze di polizia sospettati di aver ucciso illegalmente centinaia di uomini, donne e bambini e aver sottoposto migliaia di manifestanti ad arresti arbitrari di massa e almeno centinaia di essi a sparizioni forzate, torture o altri maltrattamenti durante e dopo le proteste nazionali del novembre 2019.

Nel 2022, un anno dopo la sua elezione a presidente dell’Iran, Raisi ha chiesto un rafforzamento dell’applicazione delle leggi sull’obbligo del velo, culminato, nel settembre dello stesso anno, con la morte in custodia di Mahsa Zhina Amini, avvenuta giorni dopo essere stata arrestata con violenza dalla polizia morale iraniana, tra denunce di torture e altri maltrattamenti, che hanno portato alla rivolta del movimento “Donna Vita Libertà”.

Raisi ha elogiato e supervisionato la violenta repressione delle proteste da parte delle forze di sicurezza, che ha portato all’uccisione illegale di centinaia di manifestanti e semplici passanti e al ferimento di migliaia di altre persone nonché a torture e stupri nei confronti delle persone arrestate.

Come capo del potere giudiziario o presidente, sotto Raisi sono state eseguite almeno 2462 condanne a morte.

Dopo l’ascesa alla presidenza, nel 2021, Raisi ha sollecitato invocato un uso ancora maggiore della pena capitale. Da allora, le esecuzioni sono aumentate notevolmente, culminando con la messa a morte di almeno 853 persone nel 2023, con un aumento del 172 per cento rispetto al 2021.

Il terribile picco di esecuzioni è stato dovuto in gran parte al ritorno a una politica antidroga mortale, che nel 2023 ha visto le autorità iraniane portare a termine almeno 481 esecuzioni per reati di droga, con un incremento del 264 per cento rispetto al 2021.

Raisi doveva essere indagato mentre era ancora in vita per crimini contro l’umanità. Invece è morto impunito.

Spetta a tutti gli stati, in base al principio della giurisdizione universale, avviare indagini nei confronti di tutti i funzionari iraniani che hanno agito sotto i suoi ordini per commettere crimini di diritto internazionale e assicurare così che i sopravvissuti e le famiglie delle vittime vedano i colpevoli finire a processo e chiamati, una volta per tutte, a rispondere delle loro azioni criminali.

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