Quando vengono sottoscritti accordi con governi autoritari, c’è sempre qualcuno che sostiene che saranno un’importante occasione per favorire sviluppi, riforme e cambiamenti nel campo dei diritti umani. Implacabilmente, le autorità dell’Arabia Saudita continuano a smentire questa tesi. Così, pochi giorni dopo aver concluso il negoziato per la sponsorizzazione, da parte della Aramco (l’ente nazionale per gli idrocarburi), dei mondiali di calcio maschili del 2026 e di quelli femminili del 2027, da Riad è arrivata una terribile notizia.

Manahel al-Otaibi, istruttrice di fitness di 29 anni, è stata condannata a 11 anni di carcere per aver postato contenuti a sostegno dei diritti delle donne e aver pubblicato foto in cui era vestita “male”. La condanna è stata emessa, dal tribunale che tratta casi di terrorismo, il 9 gennaio ma è stata resa nota solo pochi giorni fa, in risposta a una richiesta di informazioni da parte delle Nazioni Unite.

L’attivista è stata accusata di aver pubblicato online un appello per l’annullamento delle oppressive leggi sul tutore maschile e un video in cui indossava “abiti indecenti” e “andava in giro per negozi senza l’abaya” (l’abito tradizionale saudita). Anche sua sorella Fawzia è stata accusata di reati simili, ma è fuggita dall’Arabia Saudita per timore di essere arrestata dopo che, nel 2022, era stata convocata per un interrogatorio.

La Rappresentanza permanente dell’Arabia Saudita a Ginevra ha cercato di raccontare un’altra storia: Manahel al-Otaibi sarebbe stata giudicata colpevole di “reati di terrorismo” ai sensi degli articoli 43 e 44 della legge antiterrorismo, che criminalizza “ogni persona che crea, avvia o utilizza un sito web o un programma su un computer o su un dispositivo elettronico (…) o pubblica informazioni sulla fabbricazione di ordigni incendiari, esplosivi o di qualsiasi altro dispositivo utilizzato per crimini terroristici”, nonché “ogni persona che, con qualsiasi mezzo, diffonde o pubblica notizie, dichiarazioni false, calunnie o simili per commettere crimini terroristici”.

Ironicamente, Manahel al-Otaibi era stata una delle prime a credere nelle riforme strombazzate dal principe della Corona Mohammed bin Salman. In un’intervista tv del 2019 all’emittente tedesca Deutsche Welle aveva descritto i “cambiamenti radicali” in corso nel regno saudita, come le riforme del codice di abbigliamento, aggiungendo che si sentiva libera di esprimere le sue opinioni e di vestirsi come desiderava.

Il suo arresto, il 16 novembre 2022, ha dimostrato come quelle riforme fossero mera propaganda.

Dopo l’arresto, Manahel al-Otaibi ha subito violenze fisiche e psicologiche nel carcere di Malaz, nella capitale Riad, ed è stata vittima di sparizione forzata per cinque mesi, dal 5 novembre 2023 fino al mese scorso. Il 14 aprile, quando è finalmente riuscita a contattare di nuovo la sua famiglia, ha raccontato di trovarsi isolamento e di avere una gamba fratturata a causa delle violenze subite. Ha anche detto di non ricevere cure mediche.

La condanna di al-Otaibi segna il picco di una campagna repressiva nei confronti della libertà di espressione in Arabia Saudita, sia online che offline. Negli ultimi due anni, i tribunali locali hanno condannato a lunghe pene detentive molte persone per aver espresso le loro opinioni sui social media, comprese diverse donne, fra le quali Salma al-Shehab (27 anni di carcere), Fatima al-Shawarbi (30 anni), Sukaynah al-Aithan (40 anni) e Nourah al-Qahtani (45 anni).

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