Il lutto dell’Argentina per la scomparsa di Cesar Luis Menotti, morto il 5 maggio all’età di 85 anni dopo una vita segnata dal calcio, è dolore vero: non se n’è andato solo il ct del primo titolo mondiale dell’Albiceleste, ma anche un uomo con un’intelligenza fuori dal comune, mai banale, legato al suo paese, eppure critico, soprattutto del periodo buio della dittatura. El Flaco, il soprannome di tutta una vita, aveva origini italiane, marchigiane per l’esattezza, come Messi, ma è stato profondamente argentino. Ha sempre aperto le porte del calcio alla cultura del suo paese. Disse alla vigilia della finale mondiale Argentina-Francia del 2022: “Il segreto della squadra guidata da Scaloni è che gioca a calcio e mi fa felice che rispetti la storia. Scaloni è degno rappresentante di una cultura e di una storia. La palla è ancora loro, dei giocatori, perché vengono dai quartieri a cui appartiene la palla. La palla appartiene ai quartieri e alla gente”.

Il richiamo alla “gente”, al “popolo”, è stato una delle stelle polari della lunga marcia di Menotti. Aveva eredito alcuni concetti base dal padre, peronista di sinistra. Del Flaco si è detto e scritto che avesse la tessera del partito comunista. La certezza è che il suo rapporto con la giunta dei militari macellai fu estremamente complesso. I generali non lo sopportavano e avrebbero voluto farne a meno, ma non osarono rimuoverlo o, peggio, sbatterlo in prigione. Quando il generale Jorge Videla salì al potere con il golpe del 24 marzo 1976, Menotti era già il ct dell’Argentina: era stato nominato nell’estate 1974 e a lui era stato affidato il compito di preparare la Selecciòn per il mondiale 1978, organizzato in casa. Nel triennio alla guida dell’Huracan, aveva conquistato il titolo nel 1973, un’impresa storica. Aveva proposto un calcio moderno, solidale con la rivoluzione olandese che, partendo dall’Europa, avrebbe segnato la storia di questo sport. Menotti custodiva a casa una foto del rivoluzionario per eccellenza: Ernesto Che Guevara. Alla vigilia del mondiale 1978, ebbe il coraggio di affermare: “Dobbiamo vincere per la nostra gente che soffre, non per i generali e i loro complici”. Solo lui, in quel momento, avrebbe potuto osare. Menotti osò.

Il Flaco aveva il senso del bel gioco, illuminato dalla stagione in cui era stato compagno di squadra di Pelé: “Sono stato fortunato. Ho giocato in amichevole contro Di Stefano e dopo quindici minuti capii perché fosse un fuoriclasse. Affrontava l’amichevole come se fosse una finale mondiale. Sono stato compagno di squadra di Pelé: è stata un’illuminazione. Mi è dispiaciuto non aver giocato con Crujiff. Ho allenato Diego Armando Maradona, uno dei cinque grandi della storia del calcio, ma la sua esclusione ai mondiali del 1978 fu una scelta ponderata. Messi è il suo unico erede: non ci sono altri calciatori accostabili a Diego”. Menotti coltivò sempre l’estetica: “Bisogna avere rispetto per quello che significa il gioco. Giocare è una parola meravigliosa, anche in amore. Non posso entrare in campo senza provare l’emozione della partita. La mia squadra ideale era il Santos. Uscivano con sicurezza giocando la palla e poi facevano cambi di ritmo che ti uccidevano”. Aveva ben chiaro il compito di un allenatore: “Il calcio è come un’orchestra di grandi musicisti, ma la prima cosa di cui un allenatore deve occuparsi sono i musicisti e i loro compiti. Alla fine, il calcio può essere riassunto in quattro fasi: difendere, recuperare, creare e definire. Vedendo come viene eseguita ogni cosa, scopri quale sia l’idea dell’allenatore. Se schieri quattro mediani per recuperare il pallone, hai dichiarato il tuo concetto di calcio”. Aveva un sacro rispetto della Selecciòn: “La Nazionale è un luogo molto serio. Ogni pallone calciato da un giocatore della Nazionale risveglia una manifestazione culturale. Per carattere, il giocatore argentino possiede due cose fondamentali: maneggevolezza e tocco”.

La contrapposizione con il suo erede alla guida dell’Argentina, Carlos Bilardo, sviluppò negli anni Ottanta un dibattito “gioco-risultato” ante-litteram. La rivalità crebbe dopo la conquista del titolo mondiale dell’Argentina “bilardista” nel 1986. Menotti impose sempre la sua dialettica nel confronto, fino alla battuta fulminante: “Il calcio è così generoso che ha impedito a Bilardo di dedicarsi alla medicina”. L’Italia regalò a Menotti l’unica sconfitta nel mondiale 1978 e l’amarezza dell’esonero alla Sampdoria dopo otto partite. Il nostro calcio non lo entusiasmava, anche se la nazionale di Bearzot che sconfisse l’Argentina nel 1978 giocava bene. “Gli italiani non difendono bene, è che difendono in tanti”. Contro gli azzurri, Menotti perse anche nell’estate 1982, nel mondiale di Spagna. Quella partita lanciò l’Italia verso il titolo e l’Argentina verso l’eliminazione. La terza sfida contro la nostra nazionale, l’amichevole del maggio 1979, finì 2-2: il bilancio è decisamente in rosso. L’ironia del Flaco ha frustato anche il calcio moderno: “Mi sorprendono gli allenatori che compilano i quaderni durante le partite. Pagherei milioni per leggerli. Cosa scriveranno? Gli orari del dentista della figlia? Quale programma televisivo guardare durante la settimana? Non capisco, davvero”. L’ultima delle sue passioni è stato Guardiola: “Ci sono tanti Mourinho, c’è un solo Guardiola”. Pep, in un messaggio inviato al quotidiano Olè, ha omaggiato El Flaco: “Provo una grande tristezza perché se n’è andato qualcuno con il quale ho condiviso non meno di trenta ore di meravigliosa conversazione nei miei quattro viaggi in Argentina. Per me è stato un genio, il più grande seduttore del calcio argentino. Cesar era tutto: spirito, educazione, intelligenza. Faceva delle sue parole poesia ed è sempre stato fedele alle sue convinzioni”.

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