di Kevin De Sabbata*

Martedì scorso, in occasione della giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, TG3 Fuori Orario ha proposto un breve speciale su questa forma di disabilità che mi ha lasciato, francamente, perplesso. Infatti, ancora una volta, la narrazione aveva prevalentemente il taglio pietistico e paternalistico ancora oggi frequente nelle rappresentazioni mediatiche della disabilità. La mia non è una critica al TG3. Parlare in modo corretto di questi temi è molto difficile e il programma era sicuramente in buona fede, riuscendo comunque a sensibilizzare su problemi importanti come le gravi inefficienze nei servizi sanitari e di supporto. Però, se vogliamo diventare veramente una società inclusiva, abbiamo tutti bisogno di una riflessione più profonda su come possiamo raccontate al meglio le vite delle persone disabili.

La giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo, istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale dell’Onu, mira soprattutto a promuovere una visione positiva delle persone con questa diagnosi e ad incentivarne la partecipazione sociale. A questo proposito, la Convenzione di New York sui Diritti delle Persone con Disabilità (Articolo 8) sottolinea come le campagne di sensibilizzazione in quest’ambito debbano porre l’accento sulle capacità e il contributo delle persone con disabilità nell’ambito lavorativo e della vita civile. Tuttavia, i media tendono ancora troppo spesso ad adottare un focus medico-centrico e a concentrarsi su casi gravi e strappalacrime, che fanno sicuramente parte della realtà, ma non sono i soli rappresentativi di un mondo che rimane molto eterogeneo. Così, si rischia inconsapevolmente di rafforzare lo stigma e il pregiudizio che spesso sono i veri ostacoli che impediscono a persone con una diagnosi di autismo di vivere una vita veramente piena e dignitosa.

In realtà, collaborando a vari studi con persone autistiche, ho potuto constatare come moltissimi di questi individui siano cittadini come noi che incontriamo ogni giorno senza saperlo, e sono pienamente indipendenti, con una bella famiglia e un lavoro di successo. Per esempio, rientrano nello spettro autistico personaggi del calibro di Elon Musk, Tim Burton o Anthony Hopkins. Molti dei miei studenti, in Inghilterra, hanno una diagnosi di autismo e riescono comunque a laurearsi e ad accedere a carriere prestigiose. Contrariamente a quanto spesso succede in Italia, però, nelle università inglesi ci sono policies e piani d’azione strutturati ed articolati, che prevedono accomodamenti nelle modalità d’esame e servizi come tutor e colloqui personalizzati, programmi di coaching alle relazioni interpersonali e aule con illuminazione e arredi che evitano il sovraccarico sensoriale tipico di molte forme di autismo.

Anche nel contesto britannico ci sono comunque grossi problemi, derivanti essenzialmente dall’insufficienza delle risorse disponibili, dall’inefficienza dei servizi di diagnosi e cura, e dalla difficolta di garantire l’effettiva applicazione delle politiche di inclusione soprattutto nell’ambito del mercato del lavoro privato. A questo proposito, per esempio, è in corso, nella letteratura scientifica anglo-americana, un forte dibattito sul sistema delle cooperative per disabili (anche autistici) e delle cosiddette ‘borse lavoro’ che, pur svolgendo un ruolo importante a livello di formazione e avviamento professionale, spesso tendono ad assomigliare più a forme di carità assistenzialista che a reali processi di integrazione sociale basati sull’empowerment dell’individuo. Inoltre, rischiano a volte di degenerare in forme di discriminazione salariale in cui persone pienamente produttive vengono pagate un quarto degli altri (a parità di mansioni) solo perché hanno ricevuto una certa diagnosi clinica.

Ad ogni modo, la grossa differenza fra l’Italia e la Gran Bretagna è che in quest’ultima, anche grazie ad un faticoso lavoro del movimento per i cosiddetti ‘disability rights’, il dibattito pubblico e mediatico generalmente affronta il tema della disabilità usando il linguaggio dei diritti, cioè ponendo l’accento sulla necessità di garantire servizi a cui tutti devono avere accesso in quanto cittadini, e che non possono essere mere concessioni derivanti dal buon cuore di qualche ente o associazione. Anche in Italia, se vogliamo fare dei veri passi avanti nell’inclusione delle persone con disabilità come l’autismo, dobbiamo impegnarci di più per una comunicazione e delle politiche che veramente promuovono i diritti e l’immenso potenziale umano che questi membri della nostra comunità hanno; un potenziale che, più che da una patologia, è spesso limitato dalle barriere sociali e culturali che questi cittadini ancora incontrano frequentemente sulla loro strada.

*docente presso la Facoltà di Giurisprudenza della Keele University in Inghilterra

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