Vladimir Putin voleva un plebiscito, l’ha avuto. Regnerà sulla Russia sino al 2030 e, forse, ancora per altri sei anni. Ha vinto la sua “verticale del potere” che è anche “verticale della paura”, anzi, una paura ormai orizzontale, perché arriva ovunque, fin nel più remoto dei villaggi siberiani, rafforzata dall’impunità e dalle complicità. Una spirale dell’autoritarismo che va ben oltre le mura del Cremlino ed avvolge tutti i livelli della struttura sociale. Il suo potere è cresciuto progressivamente con l’espandersi della repressione e delle intimidazioni. Una longevità straordinaria.

Nel corso di questi primi 24 anni di potere si è mostrato parecchio immaginifico per restare in cima alla sua “verticale”. Lo ha fatto escogitando una forma apparente di legalità, ossia quella che gli analisti hanno battezzato “la dittatura della legge”, l’utilizzo strumentale del diritto come un’arma, per piegare le opposizioni, il dissenso, il mondo degli affari e i burocrati riottosi, compreso deputati, ministri, governatori. Orientando procedure e sentenze sempre a favore di chi comanda. Sgombrato il campo da interferenze di qualsiasi natura, il regime putiniano ha accentuato con la guerra in Ucraina le derive autoritarie, in una forma di “democratura” in cui il voto resta indispensabile per legittimarla.

Così zar Vladimir ha stavolta rappresentato le elezioni del 2024 come una grande opportunità per i russi di esprimere il loro assenso alle sue scelte strategiche e all’appoggio dell’offensiva in Ucraina: “I nostri soldati combattono per proteggere i territori storici della Russia”, ha ribadito in un messaggio ai militari al fronte, per sottolineare lo stretto legame ideale tra l’esito delle urne e lo scopo del conflitto che pure sta costando centinaia di migliaia di vittime e di sacrifici.

Quando, piuttosto tronfio, si è presentato verso mezzanotte, cinque ore dopo la chiusura dei seggi, in tv e poi in conferenza stampa, ha subito sfoderato gli artigli dell’aquila bicefala russa (l’emblema di un Paese il cui territorio sta sia in Europa che in Asia), ed ha gonfiato il petto dell’orgoglio nazionalista, “non ci lasceremo intimidire”, ha detto il settantunenne presidente rieletto per la quinta volta con oltre l’87 per cento dei voti, il suo record, ed era chiaro che si riferiva al coro dell’odiato Occidente che ha fin da subito contestato “le elezioni farsa”, come ha scritto il Washington Post (“un momento triste nella democrazia globale”), e chi se ne importa se il Parlamento europeo in una risoluzione del 29 febbraio scorso, ha stigmatizzato il “sistema politico russo”, controllato “da un regime autoritario che si appoggia in una corruzione endemica, che ha ricorso ad elezioni truccate come simulacro di democrazia e concentra tutto il potere nelle mani di Putin”. “Io mi rivolgo al popolo russo, grazie per il vostro sostegno e la vostra fiducia, con questo voto – ha detto un enfatico Putin – avete permesso di creare le condizioni per una “consolidazione politica interna. Non importa chi vuole intimidirci, e quanto; non importa chi vuole schiacciarci, e quanto, la nostra volontà o la nostra coscienza. Nessuno è mai riuscito a fare qualcosa di simile nella storia. Questo non ha funzionato oggi e non funzionerà in futuro”.

Insomma, la solita ricetta di una propaganda guerriera che presenta tanti vantaggi per un potere forte: l’esaltazione del sentimento patriottico, la difesa dei valori tradizionali, l’incessante critica all’Occidente decadente. E il ritorno baldanzoso della forza militare russa sulla scena di una guerra che avrebbe dovuto durare qualche giorno e si trascina invece da più di due anni. Tanto che il capo del Cremlino ha gonfiato i muscoli. Vuole profittare delle esitazioni americane e dell’impotenza europea, per affermare le sue posizioni, dimostrando che la Russia ha veramente i mezzi delle sue ambizioni e padroneggerà le difficoltà strategiche, sino alle estreme conseguenze. Infatti, quando qualcuno gli ha chiesto se credeva possibile un conflitto su larga scala tra la Russia e la Nato, ha risposto in modo inquietante: “Penso che nel mondo di oggi tutto sia possibile”. Di certo, Putin utilizzerà il voto (un risultato che supera persino le ottimistiche previsioni del Cremlino…) come prova di un massiccio sostegno dei russi e accentuerà la stretta del regime.

Tanto si è sentito appagato che ha citato per la prima volta Alexei Navalny, commentando la sua morte (“Un evento triste”). Certo, senza fornire dettagli, ma assicurando di averlo voluto scambiare con gli occidentali, a condizione che non tornasse più in Russia. Cinicamente ha poi aggiunto che la morte è stata uno “sventurato incidente, c’est la vie…”, lasciando intuire a chi l’ascoltava che lui continuava a comandare la Russia mentre chi aveva osato sfidarlo non c’era più.

E tuttavia, qualche piccola ombra sul quadro dipinto dal Cremlino c’è stata, quelle piccole ma significative che hanno disegnato il successo della cosiddetta “Operazione Mezzogiorno” contro Putin, l’ora in cui migliaia di coraggiosi russi si sono mobilitati presentandosi alle urne in patria e all’estero, accogliendo l’appello di Yulya Navalnaya, la vedova di Alexei. Lei ha votato presso l’ambasciata russa di Berlino, scrivendo il nome del marito sulla scheda e ha ringraziato “tutti coloro che si erano espressi a favore dell’opposizione”.

Lo staff superstite di Navalny ha commentato che queste elezioni non hanno alcun legame con la realtà, ma il problema è che la realtà è opaca, che fuori dalle grandi città si sono diffusi a macchia d’olio apatia, mutismo, terrore; e che gran parte della gente che vive nella Russia profonda e non urbana ha barattato quel poco di società civile che aveva in cambio di stabilità e di un leggero miglioramento della vita: credono che Putin sia l’unica soluzione che garantisca sicurezza, come lui stesso si è vantato ancora una volta di più dopo il plebiscito, l’unica soluzione, mentre il malcontento e il dissenso – questa la martellante narrazione putiniana – sono fomentati da agenti stranieri e strumentalizzati dall’Occidente. E’ il ripiegamento del paese in se stesso, è la sindrome (storica) dell’accerchiamento. E’ l’uso politico e sociale della coercizione, delle minacce, di un’escalation punitiva (favorita dalla sistematica sorveglianza della popolazione e dalla raccolta indiscriminata di dati ed informazioni), giustificata dalla paranoia che bisogna guardarsi le spalle da traditori e nemici, e da chi vuole indebolire il potere legittimo e financo di sovvertire l’ordine morale, l’anima della Grande Madre Russia.

Putin già pregusta d’essere l’uomo che più ha governato, dopo Caterina la Grande. Sta per sorpassare Stalin. Si sente ammantato dall’aura della Storia e del Destino. Così propugna ordine e fedeltà. Da zar neosovietico, come l’aveva profeticamente descritto la povera Anna Politkovskaja, ammazzata nell’androne di casa a Mosca il 7 ottobre del 2006, nel giorno del compleanno del dispotico Vladimir, l’ex spia del Kgb, “uno degli individui più impenetrabili sulla scena mondiale” (The Independent).

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