In Italia nascono pochi bambini. Forse non c’è da stupirsi visto che un terzo delle donne nel periodo cruciale per la fecondità ha un contratto a tempo determinato. Favorire l’accesso delle donne al tempo indeterminato per aumentare la natalità.

di Ylenia Brilli, Bernardo Fanfani e Daniela Piazzalunga (Fonte: lavoce.info)

Pochi bambini e molti contratti a termine

Il tasso di fecondità in Italia è tra i più bassi di Europa: nel 2021 – ultimo dato disponibile – ha raggiunto 1,25 figli per donna, rispetto a una media europea di 1,53; Germania e Francia si collocano rispettivamente a 1,58 (in leggero aumento) e 1,84 figli per donna. Nel 2022 il numero di nati nel 2022 è stato pari a 393 mila, quasi 7 mila in meno rispetto all’anno precedente (-1,7 per cento), e i dati provvisori suggeriscono un ulteriore calo nel 2023.

Molte delle politiche previste dall’attuale governo sono mirate a promuovere l’equilibrio tra famiglia e lavoro e a incrementare la fecondità, almeno in base agli annunci. Forse proprio con l’intenzione di aumentare il numero di figli per donna, la legge di bilancio 2024 ha introdotto il cosiddetto “Bonus mamme”, cioè l’esonero della contribuzione previdenziale, fino a un massimo di 3 mila euro annui, per le lavoratrici con almeno tre figli, e, in via sperimentale per il solo 2024, per le lavoratrici con almeno due figli, di cui il più piccolo di età inferiore ai 10 anni e fino al compimento della suddetta età. L’agevolazione è però rivolta soltanto alle dipendenti del settore pubblico e privato con contratto a tempo indeterminato, escludendo quindi le lavoratrici con un contratto a tempo determinato. La scelta, di cui non si comprende la ragione se non per questioni di budget, porta a uno svantaggio proprio per quelle donne che dal punto di vista lavorativo si trovano già in una situazione di maggiore incertezza.

L’Italia è uno dei paesi europei con il più alto tasso di contratti a tempo determinato, soprattutto tra i lavoratori giovani: secondo i dati Eurostat, nel 2022 oltre il 28 per cento dei lavoratori di età compresa tra i 25 e 34 anni aveva un contratto a termine, 10 punti percentuali in più della media europea e oltre 11 punti percentuali in più rispetto alla media della popolazione.

In questa fascia di età la differenza di genere è marcata: sono a termine il 25 per cento dei contratti tra gli uomini e il 32 per cento tra le donne (figura 1). Detto altrimenti, un terzo delle donne nel periodo cruciale per la fecondità ha un contratto a tempo determinato. I dati risultano ancora più preoccupanti prendendo in considerazione le differenze geografiche: se al Nord Italia circa il 27 per cento delle donne di età compresa tra i 25 e 34 anni ha un contratto a tempo determinato, nel Centro Italia la percentuale sale al 37 per cento e nel Sud Italia raggiunge il 40 per cento (figura 2).

L’analisi dei dati

Considerata l’importanza che questa fascia di età ha per le scelte di fecondità, in un nostro lavoro (di cui una descrizione dettagliata è disponibile nell’Allegato del XXII Rapporto Inps) indaghiamo se la diffusione dei contratti a termine abbia effetti sulla fecondità, e come i due aspetti interagiscano tra loro – ovvero se l’eventualità di una nascita in futuro riduca le opportunità di accesso a un contratto a tempo indeterminato per le donne.

Utilizzando dati amministrativi Inps messi a disposizione all’interno del programma VisitInps per il periodo 2005-2017, e concentrando l’analisi sui lavoratori dipendenti di 18-45 anni, si rileva come le donne siano sistematicamente più rappresentate nelle occupazioni con contratti a tempo determinato, a parità di caratteristiche osservabili e controllando per la possibile segmentazione di uomini e donne in settori diversi. Il risultato mostra come le donne abbiano non soltanto una probabilità di lavorare e un salario inferiori a quello degli uomini, come largamente documentato (si veda anche qui), ma anche una probabilità di avere un contratto a tempo indeterminato sensibilmente più bassa degli uomini.

Successivamente, mostriamo come per le donne la precarietà lavorativa associata ai contratti a termine riduca la fecondità. Poiché le scelte di fecondità e il tipo di contratto possono essere contemporaneamente determinati da fattori non osservabili, l’analisi utilizza un approccio a variabili strumentali, che sfrutta la variazione nei contratti permanenti indotta dalla domanda, invece che dall’offerta di lavoro a tempo indeterminato. Le stime mostrano che avere un contratto a tempo indeterminato aumenta la probabilità di avere un figlio di 2-3 punti percentuali. Si mette poi in evidenza come nelle occupazioni in cui vi è una maggiore differenza di fecondità tra lavoratrici con un contratto a tempo indeterminato e lavoratrici con un contratto a termine, vi sono anche minori opportunità di accesso al tempo indeterminato per le donne rispetto agli uomini (a parità di altre caratteristiche, inclusi settore, mansione, provincia di occupazione ed esperienza lavorativa). Il risultato suggerisce che vi sia una discriminazione statistica da parte delle imprese nei confronti delle donne in età fertile, che limita le loro opportunità di accesso al tempo indeterminato.

I nostri risultati mostrano che favorire le opportunità di accesso a contratti a tempo indeterminato per le donne avrebbe effetti positivi sulla fecondità, innestando un circolo virtuoso che ridurrebbe gli svantaggi lavorativi associati alla maternità (child penalty). Si può inoltre concludere che limitare i sostegni economici alle sole lavoratrici con contratti a tempo indeterminato non solo esclude una fetta importante di donne lavoratrici, ma rischia di aggravare il divario di fecondità tra tipologie contrattuali, penalizzando ulteriormente chi, a causa della minore durata e maggiore incertezza del contratto, è costretta a modificare le proprie scelte di fecondità.

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