Quanto dobbiamo preoccuparci per la nostra libertà? E quanto, in particolare, per la nostra libertà di espressione e manifestazione del pensiero? È un dubbio ricorrente di questi tempi allorché – a corrente alternata, ma più spesso anzichenò – si ha la sensazione che questa agognata libertà si avvii a diventare un’eccezione piuttosto che la regola del dibattito pubblico (dove si forma la cosiddetta “pubblica opinione”). I sintomi del malessere sono plurimi: dalla censura delle grandi piattaforme del web (nei confronti di chi è troppo eccentrico rispetto alla vulgata dominante sui temi più diversi) alle proposte di legalizzare la mordacchia al giornalismo investigativo, dall’auto-censura cui si costringono talora gli stessi “professionisti dell’informazione” su certi argomenti, per così dire, delicati, al rischio di querele (anche per diffamazioni molto “presunte”) sempre dietro l’angolo.

Tutto vero, tutto verificabile, ma poi ci si consola al pensiero che esiste l’articolo 21 della Costituzione; insomma, siamo (o dovremmo) essere blindati sul piano del diritto positivo.

Forse, però, non è il caso di darlo così per scontato. In particolare, se consideriamo un regolamento europeo di cui (troppo) poco si parla pur essendo il medesimo già in vigore. Ci riferiamo al cosiddetto DSA (Digital Services Act), entrato a regime il 25 agosto 2023 e applicabile a 19 colossi digitali (tra cui tutti i più noti: Google, Facebook, Youtube, Whatsapp ecc.) nonché esteso al resto della rete dal mese di febbraio. In teoria, questo nuovo “crogiuolo” di regole – redatto nel classico linguaggio involuto, barocco, equivoco delle normative europee – dovrebbe tutelarci da gravi reati (come il terrorismo), contribuire alla lotta all’odio, combattere la discriminazione, ma soprattutto contrastare la cosiddetta “disinformazione”.

Ed eccoci al punto. In un sistema autenticamente democratico il primo (se non addirittura unico) comandamento in materia dovrebbe essere quello di proteggere, agevolare, diffondere l’informazione (come fa la nostra legge fondamentale con il succitato articolo 21), non quello di osteggiare il suo contrario. Ma non è solo questo il punto, sia ben chiaro. Il DSA prevede la possibilità di disporre la rimozione di contenuti ritenuti “fuorvianti” o “inaffidabili” a discrezione di un apposito, e neocostituito, Comitato alle dirette dipendenze della Commissione europea. Il tutto coadiuvato dall’uso di un sistema di algoritmi e con pesanti sanzioni (fino al sei per cento del fatturato) a carico dei provider che non si adeguano.

Una nutrita e logorroica sequenza di “considerando” (articoli prodromici al testo vero e proprio) del DSA ci deve porre sul chi vive rispetto allo stato non solo presente, ma specialmente futuro delle libertà di cui abbiamo parlato in apertura. Stando al “considerando” numero 9, il DSA dovrebbe farci da scudo contro i “rischi per la società che la diffusione della disinformazione o di altri contenuti può generare”. Il considerando numero 12 definisce illegali le “informazioni, indipendentemente dalla loro forma, che ai sensi del diritto applicabile sono di per sé illegali, quali l’illecito incitamento all’odio o i contenuti terroristici illegali e i contenuti discriminatori illegali”.

Trattasi di diciture così generiche e suscettibili di così tante differenti “applicazioni”, da far rizzare i capelli sulla testa per quanto possono facilmente prestarsi a interpretazioni estensive o distorsive, e financo perverse, rispetto alla libertà di parola e di opinione. Il considerando numero 82 così recita: “La terza categoria di rischi riguarda gli effetti negativi reali o prevedibili sui processi democratici, sul dibattito civico e sui processi elettorali, nonché sulla sicurezza pubblica”. Superfluo rimarcare quanto possa essere pericolosa una legge sulla “disinformazione” che ambisce a salvaguardare i “processi democratici”.

Nel considerando numero 83 del DSA si legge: “Tali rischi possono derivare anche da campagne di disinformazione coordinate relative alla salute pubblica”. Ebbene, ci si chieda quante delle prese di posizione critiche, ai tempi del Covid-19 e della campagna vaccinale, si sarebbero salvate dalla tagliola della censura, con una legge siffatta. In caso di crisi, infine (tipo “conflitti armati, atti di terrorismo, catastrofi naturali quali terremoti e uragani, pandemie e altre gravi minacce per la salute pubblica a carattere transfrontaliero”), il considerando 91 e il considerando 108 prevedono la possibilità di “adottare con urgenza determinate misure specifiche”; non è difficile immaginare quali.

In conclusione, alla luce di tutto quanto esposto, il fatto che il DSA sia stato approvato dal Parlamento europeo con 539 favorevoli e solo 54 contrari ci fa sorgere un atroce sospetto: che i primi a non avere alcun interesse per la libertà di espressione e di manifestazione del pensiero siano proprio i cittadini europei e i loro rappresentanti.

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