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“Il mostro di Firenze era un narcisista maligno ferito da un rifiuto sessuale. Si sono tutti concentrati sul ‘chi’ e in pochi sul ‘perché’ di tanti omicidi”

Questa è l’ipotesi che lo scrittore genovese Cristiano Demicheli affronta nel suo “Narciso Cacciatore”, in uscita oggi per Rogas editore

di Alessandra De Vita

Un “narcisista maligno” sarebbe il mostro di Firenze: questa è l’ipotesi che lo scrittore genovese Cristiano Demicheli affronta nel suo “Narciso Cacciatore”, in uscita oggi per Rogas editore. Si tratta del suo secondo libro sull’assassino seriale autore di otto duplici omicidi commessi tra il 1974 e il 1985 ai danni di giovani coppie di fidanzati assalite in luoghi isolati della provincia fiorentina, tutte in momenti di intimità. Perché i cosiddetti “compagni di merende”, accusati di essere complici di Pietro Pacciani – prima condannato, poi assolto e morto nel ’96, prima che partisse un nuovo processo – avrebbero commesso quei crimini? Parte da questa domanda l’autore del libro che traccia un profilo psicologico del “mostro”, definito sin da subito uno psicopatico, un predatore sessuale, con una ferita narcisistica importante collegata alla “pulsione di morte” già individuata da Freud in questi soggetti. Per Demicheli, il mostro di Firenze nasce da un rifiuto sessuale che è l’origine di quest’odio violento nei confronti del genere femminile, le vittime maschili sarebbero solo consequenziali. E il trattamento riservato alle vittime a cui veniva puntualmente asportato il pube (negli ultimi due il seno) indicherebbe l’estirpazione della matrice di angoscia. “Si sono tutti concentrati sul “chi” e in pochi sul “perché” di tanti omicidi”, dice a FQMagazine.

Demicheli riferendosi al movente e traccia un’analogia tra questi, dal delitto di Rabatta (1974) in poi. La più nota è l’arma del delitto, che fu utilizzata anche in un delitto, quella di Signa avvenuto nel 1968 che è considerato una sorta di “prequel” dei crimini a venire. Di Signa fu accusato il marito della vittima, Stefano Mele, e furono coinvolti anche i fratelli Francesco e Salvatore Vinci. Ma se dalle indagini è emerso l’omicidio in cui persero la vita Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, non fu quasi con certezza commesso dall’autore degli altri crimini, com’è possibile che l’arma, la famosa Beretta mai rinvenuta ma identificata dai bossoli, sia stata la stessa? Qualcuno avrebbe ha rubato o comprato la pistola calibro 22. Nel primo delitto, Demicheli individua un movente personale che lo lega strettamente alla vittima Stefania Pettini su cui il mostro si accanì con furore profondo: l’ipotesi dell’autore è che tutto sia partito da un rifiuto nei suoi confronti. La Pettini, del resto, aveva confessato a un’amica di essere stata pedinata nei suoi ultimi giorni da uno sconosciuto. Da questo crimine in poi, in “Narciso Cacciatore” si parla di una migrazione della colpa dalla vittima primaria, la Pettini, alle sventurate che subiranno ancora il suo furore folle, passando da un bersaglio reale ad altri simbolici. Altro elemento di continuità evidenziato nel libro: tutte le coppie erano in procinto di sposarsi e il matrimonio rappresentava per il narciso assassino il tradimento definitivo delle sue aspettative sessuali verso le donne assassinate, nel primo caso (della Pettini) realmente esperito e poi cristallizzato in un movente allegorico.

L’autore poi traccia un excursus attraverso altri delitti irrisolti avvenuti in quegli anni tra il Mugello e le campagne fiorentine. Li definisce i delitti “collaterali” e ce n’è uno, in particolare, che conduce a quello che Demicheli individua come il “Mostro di Firenze”. Parliamo dell’omicidio irrisolto di Gabriella Caltabellotta, 18enne ritrovata senza vita nel quartiere Careggi di Firenze il primo marzo del 1984: è stata picchiata e accoltellata. Il suo corpo è stato scaricato in un campo di ulivi dove, nel 1972, era stata ritrovato il corpo di un’altra giovane donna, Miriam Escobar. I due omicidi hanno molti tratti in comune con quello di Stefania Pettini: emerge sempre un uomo sui 40, brizzolato, dai modi eleganti, che infastidisce le donne in discoteca e che si offre di accompagnarle a casa. Questo ci porta dritti a quello che Demicheli indica come il Mostro di Firenze: Paolo P. Si tratta di un imprenditore, classe ’36, originario di Prato ma con un pied-à-terre a Firenze, che viene accusato di aver violentato una ragazza, C.P. Lei stessa dichiarò alle forze dell’ordine, anni dopo, di essere stata avvicinata nella discoteca (altro elemento ricorrente) “Jackie O’” di Firenze da quest’uomo che si sarebbe offerto di accompagnarla in un altro locale per poi trascinarla a casa sua sotto minaccia. Le ordinò di spogliarsi “o avrebbe fatto la fine di quell’altra”, le disse riferendosi alla Caltabellotta.

Alla donna, Paolo P. disse anche di essere il mostro di Firenze. Chi è costui? L’uomo era stato ai domiciliari per “atti e reato ai fini di libidine”. Veniva da una famiglia di “cenciaioli”, tipica del pratese, ma aveva fatto fortuna nell’industria tessile e nel campo della moda a Milano. Era soprannominato “Morino di Cafaggio”: era un playboy e sulla sua lapide, nel cimitero di Prato, c’è scritto: “Il P. può tutto nella vita” che a quanto pare era il suo slogan. “Prima di giungere a lui – spiega Demicheli a Fq – avevo tracciato un profilo psicologico del “mostro”, delineando delle precise caratteristiche tra cui il lavoro nel campo dell’abbigliamento. Poi, ho scoperto per caso che Paolo P. era entrato nelle indagini e ho iniziato a fare ricerche. Più scavavo e più trovavo: collegamenti e coincidenze. Ho fatto un processo inverso: partendo dal nome ho cercato le varie connessioni possibili con quello che credo sia stato un assassino unico, responsabile di tutti i delitti fatta eccezione che per quello di Signa del ’68. Il nocciolo del Mostro di Firenze è il movente mai stabilito ed è un movente personale. Il mostro era un narcisista che nutriva forte risentimento verso le donne che gli si negavano considerate alla stregua di una collezione di bambole e infliggendo loro la morte nutriva il suo senso di rivalsa, era quella per me la molla come in tutti i femminicidi. Ora se ne parla tanto ma all’epoca non era così. L’unico passaggio oscuro resta l’unicità dell’arma e il passaggio di mano della pistola dal delitto di Signa a quelli del mostro. Credo si sia trattato di un furto o una vendita. Io credo Pacciani fosse innocente anche se non era uno stinco di santo. Non era colpevole, almeno, in relazione ai delitti del “mostro”.

In tutti i processi non è mai stata dimostrata la sua colpevolezza ma in aula si è sempre cercato di incastrarlo. Non aiutava che questi delitti fossero sparpagliati nel tempo, c’è stata troppa dispersione nella vicenda. Si sarebbe potuto cambiare direzione ma la procura ha preferito tenere il punto piuttosto che cercare altre strade. Non si è indagato su Paolo P., se non brevissimamente. Penso ci siano troppe coincidenze perché Paolo P. possa essere estraneo alla vicenda e penso sia proprio lui il mostro di Firenze e che abbia operato da solo. Credo sia uno dei più papabili, in cima all’albero dei sospetti”.

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