Non ricordo perché non dormivo, non ricordo dove e come appresi la notizia ma ricordo quella nottata, diventata poi mattinata, frenetica per l’inseguirsi di notizie prima vaghe, poi sempre più delineate e terribili. Iniziai a scrivere di getto, carta e penna, per la morte di Marco Pantani. Era il 14 febbraio del 2004, avevo 24 anni e la passione per lo sport e il giornalismo mi scorreva nelle vene da qualche anno ormai. Pantani aveva sicuramente contribuito ad alimentare entrambe, conquistando trionfi che facevano esplodere di gioia gli appassionati e infiammavano anche le cronache e i racconti delle penne più affilate del giornalismo e anche degli scrittori. Il ciclismo, il suo ciclismo tornava epico ed era stato l’eroe di tutti.

Tutti, anche in quell’inizio 2004, confidavamo nel ritorno in grande stile del Pirata, in un ultimo show sulle montagne. L’anno precedente aveva già dato qualche segnale di riscossa e l’occhio benevolo di noi tifosi irriducibili l’avrebbero voluto rivedere ancora ai suoi livelli. Imprendibile. Il lungo e freddo inverno, spesso difficile da gestire per i ciclisti, è diventato infinito e gelido all’alba di quel 14 febbraio: a San Valentino si spezzava il cuore di noi innamorati di Marco Pantani.

Le ricostruzioni, le inchieste e gli strascichi di quel tragico epilogo arrivano fino ad oggi ma io vi voglio riportare a quei momenti, quando quella notizia fu in grado di sconvolgermi. Vent’anni fa scrissi un pensiero per il mio idolo, oggi sarebbe diverso, ma per ricordarlo voglio tornare a quelle ore, a quell’immagine del campione inarrivabile cui si bruciavano le ali e cadeva giù, al me che si sentiva in dovere di scriverne senza pubblicarlo da nessuna parte.

Il mio scritto di allora ha un malinconico candore che oggi non mi appartiene forse più ma non voglio modificarlo di una virgola perché Pantani a quel tempo aveva la capacità di fissare dei momenti e renderli storia, nel bene o nel male. Rendendoli unici ed eterni.

***

“Questa volta te ne sei proprio andato, in fuga, imprendibile per tutti. Lontano da quel cinque giugno del ’99, lontano da chi ti ha distrutto e da chi, ancora più colpevolmente, non ti ha aiutato. Sei volato via, in fuga da te stesso, uomo, che non riusciva più a ritrovare il campione. Ti eri rifugiato dietro un muro di depressione e i tuoi nuovi e pericolosi compagni erano l’alcool e la droga. Il mondo del ciclismo ti aveva rinnegato ma tu hai respinto il mondo intero, perché!

Quante volte eri caduto, e tutte le volte ti rialzavi e ancora più cattivo ripartivi all’inseguimento del tuo sogno e accendevi in un lampo quelli di migliaia di tifosi. Solo loro sarebbero riusciti a fermarti, soffocandoti con un abbraccio quando alzandoti sui pedali scalavi l’Alpe d’Huez, il Mont Ventoux, il Galibier ed in cima issavi il tricolore.

Ti abbiamo sempre aspettato e, dimentichi dei tuoi 34 anni, tanti per un ciclista ma troppo pochi per morire, ti avremmo atteso ancora per rivederti pedalare: magari tranquillamente, nella pancia del gruppo, a goderti la tua vecchiaia agonistica e prodigo di consigli ed aiuti per i giovani che ti avrebbero avuto a modello.

Ma questo è il mio Pantani ideale e la realtà, ben più cruda mi scuote: le lacrime che mi percorrono il viso sono le stesse che scendevano giù il due agosto 1998 alla vista di un italiano di nuovo in giallo, ma il loro sapore è molto diverso, molto più aspro. La rabbia adesso non servirà e dunque la lascio a chi avrebbe potuto fare qualcosa, preferisco rifugiarmi nel ricordo dei giorni belli che ci hai regalato, delle ore davanti allo schermo o sulle strade pur di non perdere il momento, immancabile, in cui tu avresti deciso di salutare tutti per arrivare da solo al traguardo.

Già, da solo, fino all’ultimo hai preferito restarci per andare via, senza salutarci”.

(14.02.2004)

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