Uno stupro, è uno stupro, è uno stupro. Non c’è un disvalore maggiore se a commetterlo sono italiani o stranieri. E’ persino banale scriverlo. Eppure si sta ripetendo uno sgradevole copione. La violenza di gruppo di una ragazza di appena 13 anni, nel parco della Villa Bellini a Catania, commessa da sette ragazzi egiziani, è diventata oggetto di scontro politico. Una buona fetta dell’opinione pubblica, dei giornali e dei politici, sventola una bandiera sul suo corpo violato per raccogliere fazioni, e sono cominciate battaglia ideologiche, scontri di partito, stoccate velenose tra leader politici. Siamo anche sotto elezioni europee e gli stupratori, questa volta, sono stranieri e immigrati: “mantenuti a spese dello Stato italiano, nei luoghi di accoglienza e portatori di una sottocultura che umilia le donne”. Perché qui in Italia quella sottocultura non esiste. Siamo una società evoluta che ha sconfitto il patriarcato, la misoginia, il sessismo. Noi qui in Italia, siamo così attenti al rispetto delle donne, da riuscire a seppellire qualunque movimento di denuncia collettiva sulle violenze e i ricatti sessuali con efficacia e velocità.

Qui, in Italia, il Me Too deragliò nella messa alla berlina di Asia Argento. E sempre nel nostro evoluto Paese, così sensibile ai diritti delle donne, la recente denuncia di Massimo Guastini – pubblicitario ed ex presidente dell’Art Directors Club Italiano – sulle chat per soli uomini, in una agenzia pubblicitaria milanese, dedicata a fantasie di stupri e trivialità sulle colleghe, si è sgonfiata come un palloncino. Il vaso di Pandora che svelava il lato oscuro del mondo dei creativi milanesi, ben 400 testimonianze di molestie sessuali, si è tappato ermeticamente. Non se ne parla più. Olga Ricci, pseudonimo dell’autrice del libro Toglimi le mani di dosso pubblicato nel 2015, raccontava delle molestie sessuali subìte nelle redazioni da un direttore che si comportava come un sultano. Descrisse uno spaccato di gerarchie, servilismo e abuso di potere nel mondo del giornalismo facendo meno rumore di un petardo durante un concerto rock.

Perché qui, in Italia, si rispettano i diritti delle donne vittime di violenza ma con molta molta omertà.

Dopo lo stupro avvenuto a Catania si è intonata l’immancabile litania logora, l’invocazione pelosa: “dove sono le femministe?”. Massimo Gramellini, che mi trovo a citare per la seconda volta in pochi giorni, si è chiesto se non scatti in molti un atto di autocensura quando lo stupratore è un immigrato che “finisce per eludere un dibattito serio sul contesto sradicato e spesso mal gestito in cui vivono tanti adolescenti maschi appena sbarcati in Italia. E per commettere un torto ulteriore verso quella ragazza, facendola sentire una vittima di serie B”. Ma di questo stupro non si sta forse parlando, scrivendo, commentando? Chi con petulanza chiede “dove sono le femministe?” sappia che a poche ore dalla diffusione della notizia, erano a Villa Bellini dove la ragazza di tredici anni ha subito lo stupro. A centinaia.

Ma nessuno ha mai contestato che non ci siano state manifestazioni di piazza alla notizia dello stupro di Alberto Genovese, descritto su un quotidiano “astro nascente” prematuramente decaduto; né quello di Federico Pesci la cui afflizione venne raccontata durante un’intervista con “sprofondato nel divano”; né ci furono forti reazioni dopo la notizia delle indagini su Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia passata a lungo in sordina (ma questo Gramellini non lo ricorda?). Le femministe non sono scese in piazza nemmeno per gli stupri commessi da Omar Confalonieri, l’immobiliarista condannato a sei anni e 4 mesi dal tribunale di Milano. Quando si tratta di italiani si chiama “garantismo” oppure esiste uno strano modo di valutare la giusta indignazione sulla base di differenti percezioni?

La questione immigrazione come fosse l’origine dello stupro trova sempre ampio spazio nell’opinione pubblica e già molti definiscono gli stupratori “risorse boldriniane” riferendosi a quella Laura Boldrini, presidente della Camera, che ricevette il record di malaugurati stupri dalla rabbiosa pancia dei social. Malauguri di violenza sessuale che vennero fatti anche da quei politici che si scandalizzano per lo stupro degli stranieri ma poi, auspicano che gli stessi stranieri lo commettano sulle avversarie politiche. Le risorse dell’immigrazione non sono solo “boldriniane”, quindi. Tra costoro ci fu anche il sindaco di Pontinvrea, Matteo Camiciottoli, condannato dal Tribunale di Savona nel 2019 per diffamazione.

In questa tempesta di reazioni emotive a catena, rabbiose proiezioni inconsce, strumentalizzazioni dello stupro ai fini di propaganda elettorale, a farne le spese sono le donne e i loro corpi violati. Campi di battaglia durante e dopo lo stupro, su cui vincere una partita ideologica. Del diritto delle donne ad essere libere e a non essere depredate da uomini di qualunque nazionalità, in fin dei conti, gliene frega ad una parte minoritaria di questo Paese. In trent’anni di accoglienza nei centri antiviolenza abbiamo imparato in quante lingue si può dire “puttana” e “troia” ad una donna, e sappiamo come le parole, gli insulti degradanti rivolti a compagne, colleghe, vicine di casa, sorelle, sconosciute incrociate per strada, abbiano sempre gli stessi contenuti in ogni lingua del mondo: dal Marocco alla Russia, all’America passando per l’Italia. L’odio per le donne e per la sessualità femminile è stato globalizzato in centinaia di anni, si declina in idiomi innumerevoli e le azioni violente sono sempre le stesse, le dinamiche di controllo e di potere sui corpi identiche, e simili i modi di uccidere. Le motivazioni e le autoassoluzioni dei violenti? Sono sempre le stesse.

Si può leggere la violenza maschile contro le donne nella sua verità, solo se si accantonano le battaglie ideologiche, se non si annebbia la vista con la negritudine o con la ricchezza e lo status sociale o la divisa indossata dallo stupratore. Si può combattere la cultura dello stupro se non si pensano le donne come un possesso da tutelare e nello stesso tempo da controllare. Una confusione e un fraintendimento che avviene in ogni altra parte del mondo.

In Germania, nel 2007, un giudice di Hannover, ridusse la condanna da sei a due anni, ad un italiano immigrato che aveva segregato e stuprato la compagna con la motivazione che “Si deve tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell’imputato. È un sardo. Il quadro del ruolo dell’uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante”. Siamo sempre il sud di qualcun altro, e questo è relativo. Ma lo stupro è una realtà in ogni punto cardinale, viene commesso nel 98% dei casi da uomini, è un dato certo ed assoluto.

@nadiesdaa

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