di Leonardo Botta

Sono figlio di contadini. Ho ancora vivi i ricordi di quando, da ragazzino, andavo nel nostro piccolo podere a scavar patate o dare il verderame all’uva con mio padre. O di quando assistevo alla lavorazione della carne dei nostri maialini, che avrebbe fornito la riserva annuale di salumi alla mia famiglia.

Nutro perciò un profondo rispetto verso tutto il comparto agricolo e dell’allevamento, del quale mi hanno naturalmente colpito le proteste scoppiate in Italia e in Europa in questi giorni. E delle quali ho provato a comprendere le ragioni e, eventualmente, i torti.

Ho letto che l’obiettivo dei reclami sono le misure ritenute eccessivamente ambientaliste e fiscalmente vessatorie contenute nella Politica Agricola Comune (PAC) adottata dall’Unione Europea e in specifici provvedimenti dei singoli stati, che mortificherebbero le capacità produttive e di reddito di un settore che certamente non deve vivere un periodo particolarmente florido. Si va dall’obbligo di lasciare il 4% dei suoli incolto, per favorirne la biodiversità (misura di fatto finora mai applicata e tuttora oggetto di probabili deroghe, che prevedrebbero la possibilità di coltivare su tali porzioni di terreno piantumazioni benefiche o a crescita rapida e basso impatto). Ai paventati contrasti a forme di allevamento intensivo di bestiame (specie i bovini) e all’apertura verso le nuove frontiere di produzione di carne coltivata (che i detrattori insistono a chiamare “sintetica”). Alla soppressione di alcune agevolazioni fiscali per il comparto: quelle sul gasolio agricolo (che però l’Italia non intende per ora perseguire) e l’esenzione dei redditi agricoli dall’Irpef (introdotta dal governo Gentiloni e che invece l’esecutivo Meloni ha cancellato con l’ultima legge di bilancio, salvo eventuali ripensamenti in fase di conversione in legge del decreto milleproroghe). Alle proteste si affiancano, infine, alcune richieste degli agricoltori/allevatori: riduzione dell’Iva su alcuni prodotti (di difficile attuazione, visti i problemi di bilancio di cui il nostro stato soffre) e misure di contenimento della fauna selvatica che minaccia i raccolti.

Alcune mie considerazioni sull’argomento.

Nell’Europa delle sempre più aggressive pulsioni nazionaliste e protezioniste, resto un convinto sostenitore della necessità di politiche comuni dell’Ue: senza di esse, per esempio, non avremmo probabilmente conosciuto il divieto normativo di produzione di plastiche usa e getta (per la verità in buona parte facilmente raggirato, ma questa è un’altra storia). Del resto, le popolazioni (per esempio delle aree più depresse d’Italia) che hanno beneficiato dei fondi comunitari (i vari Fie, Fesr, Feasr, mutuati da misure regionali come i Por e i Psr) non possono pensare di sputare nel piatto in cui si è opportunamente mangiato in questi anni, pur con tutte le lacune e inefficienze che mamma Europa ha spesso mostrato. Altrimenti si abbia il coraggio di tornare alle politiche autarchiche di fascista memoria e amen.

Sono anche convinto che ai difficilmente contestabili fenomeni di cambiamento climatico, a cui certamente non giovano le crescenti quantità di gas serra prodotti anche negli allevamenti, si debba tentare di opporre un argine. E dunque, se l’uso di carne coltivata (sottoposta a ferrei controlli) può dare una mano in tal senso, io abbandonerei le posizioni ideologiche: il progresso va affrontato, non combattuto; sarebbe come dare ragione agli allevatori di cavalli che si fossero opposti all’introduzione sul mercato delle prime autovetture.

Un’ultima annotazione: sono legittime forme di protesta i blocchi autostradali che i trattori stanno attuando (tornando indietro nel tempo, mi vengono in mente anche i plateali sversamenti di latte per strada da parte degli allevatori lattiero-caseari, sostenuti dal partito della Lega, multati per aver sistematicamente sforato le quote latte). Allora perché indignarsi solo quando a bloccare i trasporti sono gli attivisti ambientalisti di Ultima Generazione?

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