Come temevamo, il “Piano Mattei” è uno specchio per le allodole: ci fa sentire generosi espropriatori di risorse di paesi poveri, mentre si dà copertura ad una transizione energetica “che puzza ancora di gas”. Così, infatti l’hanno subito intesa Wwf, Legambiente, Kyoto Club e Greenpeace che sono uscite con un durissimo comunicato stampa consegnato All’Ansa il 30 gennaio. “Se la Presidente non lo ha esplicitamente nominato, in realtà è molto chiaro che nel Piano Mattei le rinnovabili non sono protagoniste, protagonista è ancora il gas, insieme ai disegni di Eni sui biocarburanti”.
E’ sempre più evidente il gioco, partito con Cingolani e poi ribadito in più sofisticate versioni da Pichetto Fratin e da Giorgia Meloni: dilazionare il più possibile nel tempo l’installazione di energia pulita, in attesa di progressi irrealistici delle tecnologie nucleari, sopperiti, alla bisogna, da nuovi rigassificatori, sparsi lungo le coste italiane e riforniti di metano d’oltre Mediterraneo. L’idea di trasformare la penisola in un hub energetico e di sequestro della CO2 attraverso una collaborazione che passa dall’Africa e dalle fonti inquinanti, rischia di compromettere definitivamente gli impegni per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Ma il discorso si fa ancora più insidioso se si riflette che il traguardo di una tanto incomprensibile insipienza in realtà punti a mantenere una struttura centralizzata del nostro sistema energetico, nelle mani delle lobby i cui Consigli di amministrazione discendono dallo spoil system che Giorgia maneggia con disinvoltura. Un ritardo così anomalo e insistito nel cambio di paradigma energetico finirebbe quindi col penetrare a tal punto nella cultura dei cittadini da scoraggiarli dal ricorso alle energie rinnovabili locali.
Proprio in questi giorni è uscito il decreto di lancio delle comunità energetiche, che risulta pasticciato e, ad ora, penalizzante per chi ha già messo mano a progetti e impianti in cooperazione. E fa impressione che nel 2023, nonostante la misura del 110%, la produzione di elettricità più diffusa tra le rinnovabili (il fotovoltaico per lo più installato motu proprio da cittadini privati) ha coperto solo il 10% della domanda elettrica nazionale, a fronte dell’obbiettivo di superare almeno il 43% di produzione lorda da Fer elettriche al 2030. Non si intravvede all’orizzonte un vero sostegno alle rinnovabili, sebbene esse rimangano una delle rare filiere di nuova occupazione e di lavoro qualificato.
Sembra che il dramma dell’Ilva non abbia insegnato alcunché. Mentre i rigassificatori galleggianti di Piombino e Ravenna sono stati autorizzati in nemmeno sei mesi, il decreto Energia deve ancora definire la realizzazione di approdi a mare da utilizzare per il montaggio delle pale eoliche galleggianti. Si tratta di porti già praticati e espandibili, come quello di Civitavecchia, dove è stato preventivato uno stanziamento di due miliardi di euro da una società mista italo-danese che ha presentato un progetto di eolico off-shore per 540 MW, a 30 Km dalla costa.
Poiché entro il 2025 verrà attuato il phase out dal carbone che oggi alimenta la centrale, dovrebbe essere consentito l’assemblaggio delle turbine in porto e, poi, il loro traino al largo, mantenendo ed anzi accrescendo l’occupazione dell’attuale impianto fossile e del suo indotto. Ma, anche qui, tutto sembra fermo.
Quando si pensa che l’eolico offshore in Europa gode di ottime prospettive di crescita – nel 2023 nella Ue sono stati installati 4,2 GW di nuova potenza, un record, con una crescita del 40% rispetto all’anno precedente – fa meraviglia che da noi, anche laddove le amministrazioni locali e i cittadini si sono battuti per progetti compatibili col loro territorio, la politica non decida per iniziative industriali che favoriscano la conversione energetica a vantaggio del clima.
La costruzione di un “retroterra” adatto offrirebbe la possibilità di avere a riferimento tutto il bacino del Mediterraneo. Tuttavia, il nostro Paese non dà cenni nemmeno per quanto riguarda la catena di fornitura, che registra invece nuovi stabilimenti produttivi in Polonia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Spagna. Eppure, nel decreto Fer 2 sono previsti 3,8 GW come contingenti totali di potenza disponibili tra il 2024 e il 2028. Acquisteremo tutto da fuori, oppure non ne faremo nulla? Forse si vuole traccheggiare per arrivare al 2025 senza alternative, così da chiedere una proroga alla chiusura della centrale a carbone per “motivi occupazionali” e far sì che quegli stessi operai, che hanno scioperato per abbandonare i fossili, siano strumentalizzati magari per qualche sbocco nefasto dissimulato tra i progetti non certo virtuosi del tutt’ora misterioso “piano Mattei”.