Ultimi giorni di open days nelle scuole d’Italia. Il 10 febbraio si chiudono le iscrizioni e ogni istituto dovrà tirare le somme: quanti iscritti, quante classi, quanti insegnanti e Ata perdenti posto o quanti nuovi posti in organico, per attrezzarsi al meglio per un nuovo anno scolastico. Laboratori tirati a lustro per le visite dei genitori forse torneranno alla sciatteria dell’utilizzo quotidiano, tablet e diavolerie elettroniche per impressionare i futuri clienti funzioneranno sempre meno, anche il sorriso dei docenti sembrerà più tirato e la benevolenza del/la dirigente meno incoraggiante di quanto sembrasse quando decantava le meraviglie della sua scuola accogliendo le famiglie nell’atrio o nella palestra.

Il calo demografico ha trasformato il personale motivato – quello che tiene di più al buon nome della scuola in cui lavora – in un branco di simil-squali a caccia delle prede con ogni mezzo. Sulla scuola primaria l’effetto invecchiamento della popolazione è già calato come una scure a svuotare le aule: nel 2018/2019 risultavano iscritti 2.498.521 alunni distribuiti in 129.354 classi; 5 anni dopo gli alunni sono 2.260.929 e le classi 123.755, vale a dire 237.592 alunni e circa 5.600 classi in meno. Ora l’onda lunga sta arrivando nelle scuole secondarie, alcune delle quali già registrano cali strepitosi del numero di classi. Il tutto aiutato dall’esplosione del precariato che ha riempito le scuole di docenti “nomadi per necessità”, indotti a investire poco o nulla sulla qualità del posto in cui lavorano oggi. L’Ufficio di Statistica del Miur ci racconta di un calo del 10% complessivo di allievi nei prossimi cinque anni e la soglia dei 7 milioni di giovani italiani che vanno a scuola si appresta a essere superata verso il basso. Dunque, oltre che verso una società di vecchi, andiamo anche velocemente verso scuole deserte, da un po’ perfino di immigrati.

Si è perso nel buio della storia il ricordo del tempo in cui – per la scuola dell’obbligo e solo per quella – l’iscrizione avveniva obbligatoriamente nel posto più vicino a casa. Il criterio dell’obbligo territoriale aveva alcuni vantaggi: tragitto casa-scuola a piedi, sovente con i fratelli maggiori che accompagnano i piccoli; socialità scolastica proiettata nelle case, nei parchi pubblici, nelle attività sportive e culturali, a costruire una rete in cui l’inclusione prende la forma di un impianto sociale basato sulla comunanza di idee, obiettivi e messa in comune della conoscenza e delle condizioni di vita. In quartieri nati nelle periferie delle grandi città, una pericolosa concentrazione di disagio sociale caricava la scuola di nodi e pesi. Riuscì a sopportarli e a trasformarli in opportunità e vantaggi solo inventandosi un modello nuovo – il tempo pieno/prolungato, dagli anni ’70 in poi – e non solo per offrire più ore a scuola. Il cambiamento stava nel metodo, nell’approccio all’insegnamento, nella costruzione di una nuova scuola che accompagna e alimenta una società in trasformazione. Le famiglie erano parte integrante del processo educativo, anche di quello che costruiva nuovi contenuti e proponeva metodologie innovative. Il senso dei Decreti Delegati che istituirono i “parlamentini” di governo delle scuole sta in questa precisa funzione. Ci penseranno il trionfo dell’individualismo e l’involuzione sociale a farne poi dei simulacri del bla bla a cui sono da quarant’anni almeno ridotte le istituzioni di partecipazione del nostro paese.

Il discorso cambiava dopo la licenza media con la fine dell’obbligo scolastico: iscrizione libera nella scuola superiore prescelta, qualche limitazione data dalle disponibilità e dalle politiche degli istituti più blasonati per mantenere l’aura di aristocraticità faticosamente conquistata da questo o quel liceo. Famiglie formalmente dentro attraverso i parlamentini dei Decreti Delegati, ma sostanzialmente fuori per volontà dei figli e una certa resistenza al cambiamento da parte di istituzioni che, proprio in nome della facoltatività, provavano a trasformarsi in fortini del sapere. Tutto finito.

Perciò la “caccia allo studente”, ora alle battute finali, dovrebbe proprio cambiare pelle. Ogni scuola dovrebbe dichiarare e valorizzare, magari sul suo sito web:

1) Curriculum dei docenti, comprensivo di studi, esperienze e percorsi professionali. Gli insegnanti sono la vera qualità di una scuola, ne rappresentano il valore aggiunto ben di più che il numero dei tablet. Ad esempio, sapere se il docente che seguirà tuo figlio si è laureato on line con le università private, magari ha fatto qualche master in Romania, ti aiuta a scegliere.

2) Statistiche sulle iscrizioni negli anni precedenti, tassi di abbandono scolastico in corso d’anno e statistiche degli esiti finali. Aiuta sapere il numero dei sospesi dalle lezioni, le motivazioni, le strategie e i progetti di sostegno dell’eccellenza e della problematicità. Riportare gli esiti, il percorso scolastico e professionale degli allievi dopo che ne sono usciti.

3) Attività di supporto alla socialità e al sostegno all’apprendimento, dettagliate nel loro sviluppo temporale, indicandone anche il numero dei partecipanti e raccontando sinteticamente delle strategie per integrarle con la scuola curricolare per migliorare competenze, prestazioni, comportamento.

Dunque, niente di speciale, nulla che non si possa fare. Perché, se i laboratori possono essere lustrati una volta l’anno per l’open day, il lavorio operoso di una scuola che costruisce cultura e competenza lo puoi rappresentare solo con quello che è (orrore!) il suo capitale umano e gli esiti del servizio che fornisce alla società.

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