Una cinquantina di attivisti, sindacalisti e alcuni dipendenti Iren ha partecipato ieri, giovedì 25 gennaio, al presidio contro il protocollo d’intesa tra la multiservizi e la società idrica israeliana Mekorot. È la quarta iniziativa di protesta contro Iren a Genova, mentre in altri comuni tra Emilia-Romagna, Piemonte e Liguria si ripetono e sono annunciati nuovi volantinaggi che invitano a boicottare la società “fino alla chiusura dell’accordo”.

“La maggior parte dei dipendenti con cui ho parlato è contraria a questo protocollo dal punto di vista etico – spiega il delegato Usb Sandro Platone – ma c’è anche l’imbarazzo di dover mettere noi la faccia con i clienti, per scelte fatte dai vertici che rifiutano di fornire chiarimenti e temporeggiando nel tornare sui propri passi e ritirare l’accordo”. Una protesta che va avanti dallo scorso anno, questa contro il protocollo Iren-Mekorot, che è cresciuta di pari passo con l’escalation bellica a Gaza, dal momento che l’esercito di Netanyahu non fa mistero di avere usato proprio il monopolio dell’energia elettrica e dell’acqua come “armi” per convincere la popolazione civile della Striscia di Gaza ad abbandonare le proprie case prima dei bombardamenti e dell’ingresso dell’esercito. Ma le polemiche precedono la riacutizzazione del conflitto: “Da anni le Nazioni Unite denunciano come Mekorot sia strumento del sistema di apartheid di Israele contro il popolo palestinese”, scandiscono al microfono gli attivisti davanti alla sede commerciale di Iren di Genova (chiusa per lavori di manutenzione, come avviene ogni volta in occasione di queste iniziative). Alla protesta di attivisti e sindacati di base, in Liguria come in Emilia Romagna, si unisce la voce dei sindacati confederali, che rappresentano una grande fetta dei dipendenti della società e fin dall’inizio contestano il protocollo: “Alle nostre richieste di chiarimento non abbiamo ricevuto nessuna risposta dall’azienda – spiega al Fatto il segretario Filctem Cgil Silvano Chiantia – pensiamo sia opportuno ritirare questo accordo, soprattutto in questo momento drammatico, continueremo a chiederlo in tutte le sedi aziendali e istituzionali dove sarà possibile”.

Fin dalle prime contestazioni dello scorso anno, la linea ufficiale di Iren sulle critiche a questo protocollo è quella del silenzio stampa, un no comment, ribadito anche ieri al Fatto. Firmato nel gennaio 2023 dal presidente di Iren Luca Dal Fabbro e da Yitzhak Aharonovich, suo omologo di Mekorot, con questo accordo la società italiana dichiarava di averne ricavato attività di formazione in ambiti come le perdite di rete (in media Iren dichiara di perdere un 33% dell’acqua trasportata, la società israeliana meno del 3%), la qualità idrica con sistemi di filtrazione, depurazione, recupero acque reflue e desalinizzazione (che oggi presenta costi elevatissimi), cybersecurity. “Tutte tecniche che probabilmente l’azienda, i cui principali azionisti sono i comuni di Genova, Torino e Reggio Emilia, avrebbe potuto acquisire altrove – spiegano gli attivisti della Campagna BDS – forse a costi più elevati di quanto non possa proporre Mekorot, interessata all’accordo con società europee senza i quali non potrebbe intercettare (come già fatto in passato) i milioni di euro messi in campo dai bandi europei “Horizon” per la ricerca e l’innovazione”. Nei fatti, a distanza di un anno di questi “buoni propositi” di acquisizione di competenze pare non se ne sia fatto nulla. Intanto Mekorot, che gestisce il 90% dell’acqua potabile in Palestina, continua a ricevere accuse di violazioni. Tra altre violazioni contestate al governo israeliano, già in un report Onu del 2019 si contestavano le attività di sfruttamento delle risorse naturali presenti nei territori palestinesi occupati: “Violazioni dirette delle responsabilità legali che derivano dall’essere una potenza occupante – scriveva Michael Lynk per l’Alto commissariato per i diritti umani – portano quasi 5 milioni di palestinesi ad avere difficoltà nell’accesso all’approvvigionamento idrico”. Tutti aspetti che “i vertici di Iren avrebbero facilmente potuto verificare con una rapida ricerca su google – osservano gli attivisti – dal momento che l’accesso all’acqua è diventato nel tempo uno dei più noti simboli delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi”.
La proprietà di tutti i sistemi di approvvigionamento idrico della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono in mano a Mekorot, che le distribuirebbe in maniera estremamente disequilibrata. Se infatti il consumo di acqua nei territori occupati per i “coloni” è di 200 litri di acqua al giorno, la stessa quantità che viene erogata a Tel Aviv, ai palestinesi della Cisgiordania restano solo 85 litri al giorno, più dei 77 concessi a Gaza prima del conflitto, ma decisamente meno dei 100 che l’Organizzazione Mondiale della Sanità fissa come limite minimo di accesso all’acqua. Così le famiglie palestinesi, private di un bene essenziale come l’acqua, sono costrette a comprarla in bottiglia dalla stessa Mekorot, in una situazione che davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, ancora pochi giorni fa, è stata definita “apartheid dell’acqua”.
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