Domenica 27 gennaio 1924, Mosca. Questa la vera data del “centenario” che rievoca la morte di Lenin, morto sei giorni prima. Il giorno, cioè, dei suoi epici funerali. Un milione e mezzo di russi, arrivati da ogni angolo del Paese grazie a convogli ferroviari organizzati dal Partito, sfida il gelo polare fin dall’alba: il termometro, esagerano le cronache d’epoca, è sceso in picchiata oltre trenta gradi sottozero. Il vento artico solleva nevischio. Nella Piazza Rossa i falegnami sistemano gli ultimi dettagli del mausoleo di legno che accoglierà il leader della Rivoluzione d’Ottobre, il Padre della Nuova Russia. Le lacrime della folla affranta si cristallizzano, per la gioia dei fotografi che immortalano scene di strazio e dolore popolari. Gli altoparlanti diffondono marce funebri, scandite ogni tanto da raccomandazioni per la tutela dell’ordine pubblico. Il servizio di sicurezza è massiccio, agenti della Čeka – la feroce e spietata antenata del Kgb – si mischiano tra la gente. Migliaia di soldati sorvegliano la Piazza Rossa e le mura del Cremlino.

Il resoconto di quelle esequie magistralmente dettagliato – minuto per minuto, secondo i canoni della tanapolitica sovietica – è stato perpetuato per decenni, fino a quando il mito di Lenin ha resistito alle picconate dei revisionisti. Oggi se ne occupano soprattutto i media occidentali: rievocano il centenario della morte di Lenin, trascrivendo con dovizie di particolari i reportage di quelle ore convulse e “immortali”, grazie all’abbondanza dei materiali d’archivio, ai diari, alle memorie, ai documenti, all’iconografia del tempo. Non senza ragioni storiche e culturali: il funerale di Lenin fu un vero e proprio atto politico che suggellava l’aura sacrale del leader, trasformandolo in una sorta di icona religiosa, rito che doveva essere “agente di mobilitazione” per la causa comunista. Ma i media russi hanno snobbato l’evento. Ordini dall’alto. Dal Cremlino. Putin, infatti, detesta Lenin.

Il 22 febbraio del 2022, due giorni prima dell’attacco russo all’Ucraina, Putin pronunciò un lungo discorso in cui rimproverò a Lenin di aver concesso troppe terre agli ucraini, “è a causa della politica bolscevica che è apparsa l’Ucraina sovietica. Sarebbe perfettamente giustificabile chiamarla l’Ucraina di Lenin. Il suo vero inventore, il suo architetto”. In seno alle élites nazionaliste, di cui Putin è l’alfiere, Lenin è visto ormai come colui che ha dimostrato esagerata arrendevolezza nei confronti dei popoli che componevano l’Unione Sovietica, a detrimento della nazione russa (in compenso, è Stalin che beneficia di una certa riabilitazione ufficiale…). Alexei Levinson, dell’Istituto indipendente moscovita Levada specializzato in sondaggi e indagini socioeconomiche, ha spiegato ad una testata canadese (Journal de Montréal) perché il Cremlino non vuole commemorare la morte di Lenin: “Per Putin, dal punto di vista della Storia, Stalin è il vincente, mentre Lenin è un perdente. Il potere attuale ha bisogno di Stalin poiché è al contempo un cattivo e un eroe. Ha vinto la Grande Guerra Patriottica, così si minimizzano tutte le sue atrocità. Lenin, leader della rivoluzione mondiale? Questo non lo è mai stato… Lenin, capo del proletariato mondiale? Non esiste. Lenin, fondatore dello stato socialista? Non esiste più e nessuno lo vuole più”.

Domenica 21 gennaio 2024, Piazza Rossa. E’ una bella giornata, cielo azzurro, aria tersa. Fa freddo, una quindicina di gradi sottozero. Davanti al tempio laico di granito rosso e nero, una piccola coda è in attesa di visitare le spoglie di Lenin. Ci sono anche decine di militanti del Partito Comunista, depongono mazzi di fiori e reggono cartelli con l’effigie di Lenin. E’ un pellegrinaggio per rivendicare il ruolo del “padre della Rivoluzione”, “non soltanto per la Russia ma per il mondo intero”, rispondono alle domande dei (pochi) cronisti stranieri, “Lenin rappresenta un ideale, che dovrebbe essere non solo rispettato ma seguito”.

Ogni diciotto mesi, una squadra di scienziati cerca di riparare i guasti causati dal tempo alla salma imbalsamata. Per l’agenzia d’informazione Tass, c’è solo il 23 per cento del corpo di Lenin nel sarcofago in vetro blindato, mantenuto ad una temperatura costante di sedici gradi. La maggioranza dei russi, secondo recenti sondaggi, sarebbe a favore della sepoltura, “perché possa riposare finalmente in pace”. Una soluzione affrontata nell’aprile del 1989, durante una riunione infuocata dei vertici di Partito. Il mese successivo, al Congresso dei deputati del Popolo a Mosca, si affrontò la questione per la prima volta in pubblico, addirittura in tv (tutti i lavori del Congresso furono trasmessi in diretta).

Il dibattito scatenò inevitabilmente qualche polemica, però il tabù era ormai spezzato. Al punto che pochi anni dopo, è il carismatico Anatolij Sobčak, primo sindaco “libero” di San Pietroburgo e mentore di Putin, a lanciare una campagna per il trasferimento della salma di Lenin dalla Piazza Rossa a San Pietroburgo. Ma il futuro presidente russo – allora vicesindaco – era in disaccordo, la considerava un errore politico, una mossa prematura ed impopolare che rischiava di suscitare ampia ostilità non solo dei comunisti. Rimuovere il corpo-simbolo della rivoluzione bolscevica, spiegò, sarebbe stato come dire a molti anziani che “avevano creduto in valori falsi, che avevano buttato via la loro vita”. Del resto, il 40 per cento dei russi era convinto che la rivoluzione bolscevica avesse avuto in gran parte aspetti positivi.

Bisognava perciò agire gradualmente. Infatti, ecco che nel 2005 Putin comincia a smantellare la mitologia leninista: annuncia che l’anniversario del 7 novembre (quello della Rivoluzione bolscevica) veniva sostituito dal 4 novembre, “Giorno dell’unità” in cui si sarebbe celebrata la cacciata da Mosca dei polacchi, nel 1612 (lo Stato poi finanzierà la produzione di un film che verrà intitolato “1612”, nda). Dopo di che organizza il rientro in Russia della salma di Anton Denikin, capo di una delle Armate Bianche antibolsceviche (la guerra civile 1918-1920), dall’America al cimitero del monastero moscovita Donskoj di Mosca. Denikin era pure un violento antisemita, eppure molti russi lo considerano un sincero patriota… nel 2007, il presidente russo fa riconciliare la Chiesa ortodossa russa con la comunità fondata dal clero russo bianco emigrato all’estero, mettendo fine allo scisma durato ottant’anni. Ma anche condannando di fatto il decreto di Lenin del 26 febbraio 1922, quando ordinò la “confisca immediata nelle chiese di tutti gli oggetti preziosi in oro ed argento, di tutte le pietre preziose, che non servono direttamente al culto”. E l’ordine segreto del 19 marzo, “di colpire mortalmente il nemico”, con la scusa della carestia, per “ confiscare i beni della Chiesa con un’energia feroce, impietosa”. Migliaia di preti e di monaci verranno assassinati dalla Čeka.

Tuttavia, l’impegno putiniano nello stigmatizzare il cinismo e la crudeltà di Lenin, ridimensionando storicamente e politicamente la figura, non scalfisce l’opinione dei russi: oltre la metà ha un parere ancora positivo su Lenin, specialmente coloro che hanno più di cinquant’anni. La generazione, cioè, di chi in prima elementare sfogliava il libro di lettura obbligatorio che si apriva sempre con una storia su Lenin, un modello per tutti i bimbi sovietici, rappresentato come una persona benevole, una figura paterna che teneva discorsi esemplari, accarezzava i più piccoli sulla testa, guidava il Partito con saggezza e puntava lo sguardo con fare assorto verso il nuovo e fulgido futuro comunista. I bambini delle elementari cantavano “noi vogliamo la pace! Aiutiamoci e uniamoci! Non permetteremo che la guerra torni mai più!”. La generazione degli “oktjabrjata”, i “figli d’ottobre”, ossia i figli della Rivoluzione, che ostentavano sul petto le spille rosse con l’effigie di Lenin.

La generazione, in particolare, che ogni anno ricordava la triste e cupa domenica del 27 gennaio di un secolo fa, i funerali grandiosi organizzati da Stalin, l’istantanea del potere bolscevico che inaugurando il culto di Lenin già ne usurpava l’eredità: la bara, infatti, era portata a spalla dai capi dei capi. Stalin, Kalinin, Kamenev e Zinoviev. Un messaggio chiaro e implacabile. Michail Kalinin si alleò fin da subito con Stalin, era uno dei suoi uomini più fidati (condivideva con il futuro dittatore comunista le origini proletarie), sebbene per Krusciov fosse il “prestanome per la firma di tutti i decreti”, complice delle nefandezze staliniane: nel luglio del 1924 lo zelante Kalinin consegnò durante il quinto congresso del Partito un dossier su Lenin, piedistallo per l’ascesa irresistibile di Stalin. Che Lenin cominciava a temere: “Stalin ha concentrato un potere illimitato”, dettò tra il 23 dicembre del 1922 e il 4 gennaio del 1923, qualche settimana prima che l’attacco cerebrale lo scartasse definitivamente dalla vita politica attiva, “Stalin è troppo brutale, e questo difetto, perfettamente tollerabile nel nostro ambiente, non lo è più nelle funzioni di Segretario generale. Propongo dunque ai compagni di studiare un modo per dimettere Stalin da quel posto”. Il testamento di Lenin. Note comunicate a qualche raro responsabile del Partito in occasione del XIII Congresso del Partito che si tenne a maggio del 1924, ma conosciute ben prima dai colleghi di Stalin al Politburo, il livello più alto del Partito.

Chissà. Mentre i Quattro si avviano lentamente verso la piattaforma di legno su cui verrà appoggiata la bara e risuona nella Piazza Rossa la marcia funebre di Chopin, è a quelle parole che ripensano. Il vecchio – così veniva chiamato Lenin dai collaboratori più stretti – aveva capito tutto, rimugina Lev Kamenev, nominato presidente del Soviet di Mosca mentre Lenin, gravemente malato, non poteva più partecipare ai lavori del Partito di cui Stalin era il segretario. Lev faceva sponda con Grigori Zinoviev, potente presidente del Soviet di Pietroburgo (ribattezzata solennemente Leningrado sabato 26 gennaio 1924). Insieme a Stalin, Zinoviev e Kamenev avrebbero costituito la “trojka” per liberarsi di Trotskij, ma il triumvirato durò un anno. Kamenev finirà vittima delle purghe staliniane, nel 1936, come Zinoviev: i due furono tra i principali imputati del famigerato “processo dei sedici”, accusati di aver formato un’organizzazione terroristica che aveva progettato di assassinare lo stesso Stalin e colpevole d’aver ucciso a Leningrado Sergej Kirov, altro pilastro del potere staliniano. Kirov, in realtà, fu ammazzato da Leonid Nikolaev, giovane militante del partito, il quale aveva agito da solo (come appurarono un’inchiesta del 1956 e una commissione investigativa del 1967).

La bara venne issata sul palco, davanti ai vertici del Partito, e bene in vista per il popolo che avrebbe sfilato per giorni ancora, davanti al corpo imbalsamato nel (provvisorio) mausoleo di legno. Narrano gli agiografi che la salma di Lenin entrasse lì dentro mentre fuori il gigantesco orologio della torre Spasskaja, la più alta del Cremlino, in massicci mattoni rossi, scandiva alle quattro in punto del pomeriggio le note dell’Internazionale (di solito lo faceva a mezzogiorno). La liturgia della commemorazione, oppio dei popoli. A nulla valsero le richieste della vedova Nadežhda Krupskaja, di Lev Trotsky, della rivista Lef (che rappresentava il Levyj Front Iskusstv, il Fronte di Sinistra delle Arti) di non rendere il funerale una colossale manifestazione di religione laica. E Lenin in un santo comunista. Paradossalmente, la linea di Putin. D’altra parte, il comitato creato per le commemorazioni riflette la prudenza del presidente russo che si è tradotto in basso profilo. Conta far passare l’equazione: Lenin disprezzato da Putin, dimenticato dai russi.

Resiste, comunque, l’alta statua di ventidue metri in piazza Kaluga, a Mosca. In ogni città russa, ce n’è ancora almeno una, così come una via intitolata a suo nome, e la regione di San Pietroburgo si chiama ostinatamente Leningrad. E un busto di Lenin si trova nella base antartica russa. In Ucraina, invece, ne hanno smantellate 1320. Ne restano due. Ma a Chernobyl. E una l’hanno rimessa nella Mariupol occupata.

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