Stavolta anche quelli di più dura cervice, si spera, capiranno che non c’è spazio nel mondo del futuro per le fonti fossili, di gran lunga la prima causa del collasso climatico che come previsto da decenni ci è piombato addosso.

Soprattutto le chiacchiere stanno a zero per chi nelle fossili vuol fare investimenti, che per loro natura guardano al futuro. A maggior ragione per chi vuol chiamare quegli investimenti sostenibili, responsabili, Esg (attenti cioè a fattori environmental, social and governance), verdi, climate-friendly e chi più ne ha più ne metta. Una volta si chiamavano solo etici, ma si vede che era troppo impegnativo e troppo chiaro.

Per spiegare bisogna fare un piccolo passo indietro. Perché in Italia non ci sono mai state ed è legittimo che i più non ne abbiano mai sentito parlare. Di cosa? Delle Sri Label, le “etichette” della finanza Sri, acronimo che in inglese sta per socially responsible investment (investimenti socialmente responsabili), ma viene declinato anche come sustainable and responsible investment (investimenti sostenibili e responsabili). La chiameremo d’ora in poi finanza sostenibile.

Le Sri Label sono diffuse da anni in diversi dei Paesi europei con i quali di solito ci confrontiamo. Come ad esempio LuxFlag in Lussemburgo, Paese com’è noto di enorme rilevanza per la finanza. O Fng nei Paesi di lingua tedesca (Germania, Austria, Svizzera). E, soprattutto, la Label Isr in Francia. Dico soprattutto perché la Francia è il principale mercato europeo della finanza sostenibile, l’Europa in questo campo è l’area più avanzata al mondo (eh sì, più degli Usa), ergo la Francia è il mercato di riferimento per la finanza sostenibile nel mondo. Quello più all’avanguardia. Quello a cui tutti guardano.

Le ragioni di questa leadership sono numerose, ma è plausibile che una di queste sia proprio la presenza e le caratteristiche della Label Sri, arrivata a certificare oltre un migliaio di fondi con circa 800 miliardi di euro di asset. Tanta roba.

Le Label Sri sono state introdotte essenzialmente per due motivi. Il primo è che aiutano a dare visibilità e a far riconoscere, specie agli investitori retail, i fondi che operano secondo principi e criteri di finanza sostenibile. Il secondo, e più importante, è che offrono una garanzia: se un fondo può fregiarsi di una label, vuol dire che c’è qualcuno che controlla che esso operi effettivamente come dichiara di operare, o quanto meno che soddisfi i requisiti della label (ognuna ha i suoi, anche se c’è somiglianza). In altre parole, è uno strumento per combattere il greenwashing che nella finanza sostenibile è ormai dilagante e sta mettendo seriamente a rischio la sua credibilità.

Ma torniamo alla Label Isr. Che è una label molto particolare. Perché a metterci la faccia, a dare garanzie, è lo Stato francese. In particolare il ministero delle Finanze, che l’ha introdotta nel 2016.

Cos’è successo? Nel 2021 la Label Isr ha avviato un processo di revisione, perché nessuno è perfetto, le critiche se le beccano tutti e si cerca sempre di migliorare. Verso fine anno scorso il processo di revisione si è concluso. E fra le nuove previsioni della Label Isr ce n’è una particolarmente forte, secca: per ricevere la label, i fondi non solo non dovranno essere investiti in aziende legate al carbone o a idrocarburi non convenzionali, ma – udite udite – non dovranno neppure investire in aziende che avviano nuovi progetti di esplorazione, sfruttamento o raffinazione di nuovi idrocarburi (petrolio o gas). E trovatemi un’azienda oil&gas nel mondo che non sta facendo cose del genere! Infatti la “cazzutissima”, perdonando il francesismo, ong francese Reclaim Finance ha subito detto che con queste regole – entreranno in vigore dal primo marzo, come di consueto è previsto un periodo di transizione – aziende come Total Energies, Bp ed Eni saranno escluse.

Il messaggio è di una chiarezza adamantina: l’etichetta “di Stato” che certifica i fondi sostenibili, nel mercato della finanza sostenibile più importante del mondo, dice che le fossili sono fuori. Out. Bandite. Vietate. Stop. Altrimenti la label non arriva. Che poi è quello che i cittadini francesi in larga maggioranza avevano chiesto in un sondaggio commissionato in vista della riforma: i fondi sostenibili non devono investire nelle fossili. O una cosa, o l’altra: tertium non datur. Se no è greenwashing.

È come se in queste nuove regole si fossero incarnate le parole con cui tante volte negli ultimi anni il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha chiesto di accelerare l’abbandono delle fossili. Ad esempio queste: «Investire in nuove infrastrutture per i combustibili fossili è una follia morale ed economica».

La Francia ha indicato la direzione senza se e senza ma: nella finanza sostenibile non c’è più spazio (se mai c’è stato) per le fossili. Period. C’è qualcuno in ascolto in Italia?

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