Ferisco qualche sensibilità politicamente corretta definendo “stucchevole” la sceneggiata nominalistica di pretendere che Ignazio La Russa o Giorgia Meloni si dichiarino “antifascisti”? Quasi si trattasse di un rito di redenzione, in cui la parola sacra funge da lavacro salvifico, ove il converso monda il proprio passato squadrista per entrare nel paradiso terrestre della democrazia labiale. Di certo Meloni o La Russa non daranno questa soddisfazione al pretino di turno, per il semplice motivo che – così facendo – scontenterebbero un pezzo significativo di quell’elettorato che è il loro target di riferimento.

Ma se anche – per una qualche ragione, che non riesco a immaginare – addivenissero a pronunciare la formula fatidica, che cosa cambierebbe? I barbari e feroci guerrieri Franchi divennero mansueti convertendosi al Cristianesimo o i padroni delle ferriere vecchi e nuovi maturano attitudini benevole e fraterne inginocchiandosi davanti a papa Bergoglio nell’udienza status symbol? Insomma, che ci frega se Meloni e La Russa si dichiarano antifascisti? Nulla muta finché le parole non assumono sostanza.

La sostanza di fare proprio un modello di comportamento, in cui i valori dichiarati si traducono in adesione effettiva. Appunto, prima di o senza questo passaggio c’è solo il vuoto nominalistico. Anche perché “fascismo” non è né una religione o una ideologia ma soltanto una mentalità. Un grande intellettuale prematuramente scomparso – Tony Judt – diceva che “i fascisti, in realtà, non hanno idee. Hanno atteggiamenti”. Difatti, in quanto a pensiero compiuto il fascismo non esiste, e quindi il suo contrapposto “anti” resta vago.

Rimane il nome che abbiamo dato a un periodo storico, in cui il risentimento del ceto declinante piccolo borghese offrì una massa di manovra per obiettivi politicamente reazionari alla plutocrazia minacciata nei suoi privilegi dalle classi emergenti del lavoro. Un momento, legato alla situazione congiunturale tra i due conflitti mondiali, che può essere rimpianto dai La Russa o dalle Meloni ma non ha possibilità alcuna di riemergere nelle modalità del remake calligrafico. Del resto, perfino nella fase culminante dell’ascesa a regime, il fascismo non fu in grado di definirsi.

Nonostante la dichiarata pretesa di elaborare una propria “dottrina” specifica. Difatti ne derivò un’operazione di assemblaggio eclettico con materiali di recupero: lo Stato-etico di Giovanni Gentile, il corporativismo cattolico di Giuseppe Toniolo, lacerti di rimembranze socialisteggianti del Duce in materia di pianificazione economica, vaneggiamenti sul superuomo tipo belva bionda nietzschiana (a fronte di un’etnia nazionale in prevalenza bruna, di taglia medio-bassa e tendente alla pinguedine dei pastasciuttari).

Difatti, se passiamo dalla dottrina (abborracciata) ai comportamenti, la mentalità che il Ventennio lascia in eredità – tanto ai nostalgici che agli spregiatori – è molto più banalmente il culto della forza (dell’uomo forte, declinato sia nei miti del decisionismo che del premierato) e la pratica della prepotenza. Il tipo autoritario come mascheramento dell’insicurezza. Quell’ansia da precarietà, che si diffonde in fasi di transizione diventando fenomeno collettivo, da analizzare con strumenti antropologici, al limite psicanalitici. Come già negli anni Quaranta dell’esilio americano facevano gli scienziati sociali della Scuola di Francoforte affrontando il tema della personalità esposta alle suggestioni totalitarie e anti-democratiche. Per dirla con Theodor Adorno di Minima Moralia, “il carattere psicotico, la condizione antropologica di tutti i movimenti totalitari di massa”.

Sicché Meloni o La Russa non sono fascisti, sono prodotti di un contesto, al limite familiare; come si dice nel linguaggio comune, “casi umani”. Azzardo: il Presidente del Senato è il figlio di una famiglia siciliana intrisa di retro-cultura machista, emigrata a Milano dove il giovane Ignazio scarica la frustrazione da emarginato nel nuovo ambiente come paninaro sanbabilino (e ricercando appartenenze che lo integrino); la nostra premier, che si vuole al maschile, rivela già in questo tutta la sua nostalgia patriarcale di ragazzina cresciuta in un nucleo di donne abbandonate del marito-padre. E gli effetti prodotti da un tale contesto non li si estirpa imponendo (non si sa come) dichiarazioni di sentimento. Abiure a mezzo autodafé da Inquisizione spagnola.

C’è poco da fare: questi e queste sono venuti su così. Per cui chiedergli di rinunciare a ciò che sono è problematico, visto che costituisce il tratto identitario a cui si abbarbica la struttura della loro personalità. Sicché – con molte condoglianze per le anime belle di Sinistra – il rito dell’espiazione è rinviato sine die. E non chi dice Costituzione-Costituzione, Resistenza-Resistenza potrà modificare il fatto. Semmai il problema è quello di evitare che la fuga nell’irrazionale destrorso non dilaghi ulteriormente. In primis, evitando che anche la democrazia continui a scivolare nel nominalismo.

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