Amiamo, in questi tempi, semplificare. Matteo Messina Denaro, l’ultimo capo. Facendo coincidere la parabola mafiosa con la storia dei propri boss. Dimenticando la dimensione profonda e organizzata di Cosa nostra. Dimenticando, soprattutto, la più importante lezione: la mafia sa camuffarsi, nascondersi, scomparire. E restare potente. Certo, il fatto che Messina Denaro abbia finito i suoi giorni senza l’aura dell’inafferrabile è cosa buona. Il suo arresto e le indagini stanno scoperchiando un sistema di interessi e connivenze. Eppure il rischio, più che la frase fatta sull’abbassamento della tensione nella lotta alla mafia, è liquidare, con la cattura del suo più noto padrino, l’intero fenomeno mafioso come storia passata.

La mafia non spara, o almeno spara molto meno. Non mette bombe e non vuole più apparire. Sono lontani, da anni, i giorni in cui la conta dei morti ammazzati era difficile da seguire. Sono lontani i giorni dell’odore persistente di polvere da sparo per le vie di Palermo trasformata in una Beirut minore. E sono lontani i giorni delle foto dei capimafia con i potenti di Sicilia ad ostentare una forza che voleva essere visibile. La mafia ha imparato l’arte del basso profilo, ha capito che questa era la mutazione necessaria per mantenere ruoli e postazioni. Non la senti, non la vedi ma basta seguire le inchieste e le sentenze per ritrovarla.

Proprio nel territorio di Messina Denaro con cadenza mensile spunta un’operazione in cui i legami tra boss e politica e affari appaiono ancora saldi. Certamente non siamo ai livelli dei decenni passati, eppure cosa ci racconta il consigliere comunale, il sindaco, l’assessore che si siede ai tavolini di un bar per scambiare con il capomafia del luogo informazioni, voti e appalti? Cosa ci raccontano i sequestri e le confische di beni per milioni e milioni che, oramai, occupano lo spazio di un trafiletto sui giornali locali?

Sono domande che prescindono dalla parabola di Diabolik, come il nostro veniva chiamato, ma che restano tutte sul tavolo. Domande a cui, troppo spesso, si preferisce non cercare risposta. Dopotutto perché continuare a discutere di mafia quando i capi storici sono in galera o morti e i loro epigoni non hanno certo lo spessore criminale dei protagonisti delle stagioni precedenti? Una condizione perfetta per la mafia mutata che guarda con interesse ai mercati e ai nuovi investimenti. Capace di muoversi nel mondo delle criptovalute con la stessa disinvoltura con cui riempiva una macchina di tritolo o organizzava l’omicidio dell’esponente della famiglia rivale.

Soldi e affari, quindi. Che restano la vera bussola delle mafie. Soldi per compare uomini e cose, per influenzare economia e vita politica. Il nuovo codice degli appalti, i fondi del Pnrr, le grandi opere sono tutti elementi che ingolosiscono cosche e sistemi criminali. A tal proposito non si può ignorare come il clima da fine della storia mafiosa abbia aperto le porte ad un attacco, sostanziale, contro gli strumenti investigativi. Soprattutto contro quei reati in cui la commistione mafia-politica-affari è più forte.

Ed è in questo contesto che certa politica è ben felice di liberarsi del peso di indagini, inchieste e limiti. La narrazione di una mafia sconfitta e non più pericolosa consente di pensare di eliminare – è dibattito recente – il concorso esterno in associazione mafiosa. O l’abuso d’ufficio. Come se il candidato tizio o caio che va a cercare il sostegno elettorale non stesse facendo nulla di più che una marachella. Roba da due scappellotti, insomma. Mica vorrete davvero processare qualcuno per simili inezie? Dopotutto Matteo Messina Denaro è stato arrestato ed è morto. Sono robe del passato. O no?

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