In queste settimane le organizzazioni per i diritti umani stanno terminando la raccolta dei dati sull’applicazione della pena di morte nel 2023. Un compito a volte impossibile, come nel caso della Cina; altre volte difficile, come in quelli dell’Iran o di altri stati in cui molte esecuzioni non sono rese note dalle autorità.

Incrociando i dati di Reprieve, di Amnesty International e dell’Organizzazione euro-saudita per i diritti umani e confrontandoli con quelli ufficiali, è emerso che lo scorso anno in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 172 condanne a morte. Nel 2022 erano state almeno 196, il numero più alto dei precedenti 30 anni. Facendo le somme, dal 2015, l’anno in cui il principe della Corona Mohamed bin Salman ha assunto di fatto il potere, ci sono state almeno 1257 impiccagioni, una media di 140 all’anno. Gli ultimi otto anni sono stati i più sanguinosi nella storia moderna dell’Arabia Saudita.

Questi dati rendono carta straccia le promesse di bin Salman di limitare l’applicazione della pena di morte e di abolirla per i rei minorenni. Due di questi ultimi hanno esaurito ogni possibilità di ricorso giudiziario e la loro esecuzione, ha lanciato l’allarme Amnesty International, potrebbe essere imminente. Ma intanto le relazioni dell’Occidente con l’Arabia Saudita vanno avanti come se nulla fosse: la narrazione dominante è che bin Salman ha avviato il suo regno verso le riforme. Al resto pensa lo sportwashing, di cui l’imminente Supercoppa italiana negli stadi sauditi è uno degli esempi più evidenti.

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