La voce, intesa come suono ed espressione corporea, cioè entità vocalica al di qua e al di là del linguaggio, è stata una delle risorse più importanti della ricerca artistica contemporanea, fra teatro, musica e poesia. Voce come grido, balbettio, sussurro, gemito, borbottio, onomatopea, melismo, salmodiamento, canto. Voce come strumento musicale in dialogo con le sonorità strumentali e corporee.

Stando all’ambito teatrale, si va dal grommelotage degli allievi di Jacques Copeau, nei primi anni Venti del Novecento, al grammelot di Dario Fo; dai vari esperimenti di “poesia sonora” delle avanguardie storiche (soprattutto in ambito cubo-futurista e nell’espressionismo tedesco con Der Sturm), al grido-”geroglifico di un soffio” di Artaud; dal training vocale del Teatr Laboratorium di Grotowski e dell’Odin Teatret di Barba alla phoné di Carmelo Bene; dagli esperimenti fra canto, musica e scena negli anni Sessanta-Settanta con Luciano Berio e Cathy Berberian in prima fila (ma anche con Gabriella Bartolomei, attrice-cantante del gruppo Ouroboros di Pier’alli), al “teatro del grido” del Roy Hart Theatre di Londra; dal “teatro totale” di Meredith Monk (senza dimenticare, per l’America, Diamanda Galas) alla poesia teatrale di Mariangela Gualtieri e del Teatro della Valdoca; dal teatro-canzone di Enzo Moscato ai “concerti” della Socìetas Raffaello Sanzio, che si giovano del decisivo apporto del musicista Scott Gibbons. Per non parlare delle proposte che arricchiscono il panorama italiano con il contributo di altre tradizioni: come quella di Moni Ovadia, con la musica klezmer di tradizione yiddish e il canto ebraico sinagogale.

Il teatro del Novecento ha sovente messo a frutto le acquisizioni su poesia-suono-voce emerse sia in ambito musicale (dallo Sprechgesang di Schönberg alle esperienze del secondo dopoguerra, con Cage, Stockhausen, Ligeti, Boulez e Nono) sia nell’ambito della performance poetica, cioè delle prassi esecutive elaborate da poeti e/o su poeti (da Valéry a Majakovskij, da Yeats a Garçia Lorca e a Neruda, da Dylan Thomas a Allen Ginsberg –senza dimenticare i nostri Ungaretti e – più tardi- Scabia).

In questo ricchissimo panorama interdisciplinare spicca la figura del musicista e cantante di origine greca Demetrio Stratos, al secolo Efstratios Demetriou (1945-1979). La sua straordinaria ricerca vocale, sviluppata interamente in Italia negli anni Settanta, rappresenta un unicum, per qualità, innovatività e originalità, attingendo a fonti peculiari, colte e popolari, appartenenti a varie culture mediterranee e balcaniche, con propaggini fino al Medio ed Estremo Oriente (Iran, India, Mongolia, Cina).

L’esplorazione delle possibilità dello strumento voce lo porta alla scoperta delle diplofonie, cioè della possibilità di emettere due o tre suoni contemporaneamente (rintracciabile in varie pratiche tradizionali slave e asiatiche), a ricreare le sonorità di altri strumenti (con le flautofonie) e del mondo naturale. Sono numerosi i dischi, i concerti e le performance che rivelano negli anni Settanta il talento e il coraggio della ricerca condotta da Stratos ai limiti del linguaggio, con gli Area e, soprattutto, da solo. Si avvicina alla avanguardia interdisciplinare di Fluxus e soprattutto al guru della nuova musica, John Cage, del quale esegue alcune opere. Muore a soli trentaquattro anni a New York per aplasia midollare.

In questi giorni, a Ravenna (Palazzo Malagola), una bella mostra, curata da Ermanna Montanari e Enrico Pitozzi, offre ai visitatori una parte dei materiali dell’archivio dell’artista, conservato finora privatamente dagli eredi e adesso acquisito dal Comune ravennate, con l’aiuto della Regione. C’è soprattutto la possibilità di ascoltare, anche in modalità immersiva, le registrazioni audio, e talvolta video, delle più importanti interpretazioni e creazioni di Stratos. La sua voce dagli anni Settanta non smette di incantarci e interrogarci. La mostra resterà aperta fino alla fine di gennaio.

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