“Qualora noi meritassimo una libertà dovrebbe essere affrancamento dal lavoro, e non occupazione sul lavoro, anche se non si sfugge mai alla macchina. Lo spiega bene Deleuze… Uscendo dalla catena di montaggio, la macchina diventa più forte nella strada, poi nell’auto, ‘On n’échappe pas de la machine’, poi in famiglia si fa sentire la pressione della catena di montaggio, financo nella rivoluzione, nell’amore, e soprattutto la catena di montaggio si sente nell’entusiasmo, soprattutto nell’entusiasmo”: questo è probabilmente il passaggio più vertiginoso, e noto, della folgorante, indimenticata apparizione televisiva di Carmelo Bene del 1994, durante la puntata speciale del Maurizio Costanzo Show “Uno contro tutti”.

Trent’anni dopo una band romana intitola un brano proprio col martellante refrain deleuziano; On n’échappe pas de la machine. Degli adorabili folli come gli Aguirre (vecchia conoscenza della scena alternativa romana) non possono che meritare l’attenzione degli ascoltatori alla ricerca di sussulti inattuali. Un gruppo nato dalla storica Scuola Popolare del Testaccio: Giordano De Luca, piano e voce e chitarra (autore dei testi colti e stratificati), Martino Cappelli, chitarra e bouzouki (portatore di differenti suggestioni etniche dal punto di vista sonoro e strumentale), Alice Salvagni, al basso e ai cori (capace di evocare atmosfere postmoderne e suadenti, che fanno pensare al rifacimento di Mamma Roma, il non dimenticato Rosa Funzeca di Aurelio Grimaldi), il tutto sostenuto dai ritmi cangianti di Giulio Maschio alla batteria.

Eccomi, dunque, a parlarvi della seconda fatica della band romana, Belle Epoque: un disco finalmente partorito dopo lunga e laboriosa gestazione, scaturito da feconde tensioni e fondato su continui contrasti stilistici. Un equilibrio ricercato per contrari: all’interno in primo luogo dei testi, nella giustapposizione tra linguaggio aulico e turpiloquio, poi della composizione musicale (in un caleidoscopio di generi che unisce e dissolve brit pop, grunge, punk, cantautorato, intermezzi sinfonici e interruzioni tra jazz e death metal alla John Zorn). e nella stessa contrapposizione tra testi e musica, ad esempio, nella dissonante armonia tra versi stridenti e melodie soavi.

Immaginate Francesco De Gregori che canta una canzone dei primi Baustelle arrangiata dai Radiohead che in pochi secondi diventa un brano dei Blur con testo di Battiato ma che, per pochi istanti, viene interrotto dai Cannibal Corpse: spiazzante, nevvero? Questa sfuggente inafferrabilità è proprio la cifra distintiva degli Aguirre, un gruppo le cui canzoni assomigliano a talmente tante altre da diventare riconoscibilissime, le cui influenze sono talmente molteplici e vorticanti da renderli irriducibilmente originali.

Ma dietro all’autodefinito mutant pop della banda non c’è solo la confusa voracità negli ascolti musicali di ex-adolescenti degli anni ’90: i riferimenti sono colti e consapevoli, dal titolo del gruppo (chiaro omaggio a Werner Herzog) a quello del disco (allusione nemmen tanto velata all’epoca contemporanea, era di inconsapevole fatuità prima del disastro imminente). In questo senso, sia la commistione dei generi che l’ironica riflessione che è dietro ai testi, solo apparentemente stralunati e intimisti, rivela un evidente sottotesto politico, nel senso più ampio e nobile del termine: interessante è notare come in realtà il disco sia stato composto prima dell’era Covid e del clima di guerra internazionale dei nostri giorni, che pare invece commentare con sottile sensibilità vaticinatoria. Un disco che rifiuta sfacciatamente tutte le convenzioni imposte dall’industria discografica dominante: è lungo, indecifrabile, incatalogabile, un oggetto estraneo alle dinamiche ottuse del mercato.

Nota a parte merita il video de il brano Il Navigatore, girato da Susanna Nicchiarelli, sceneggiatrice del film, potente e tremendo, Rapito di Marco Bellocchio, regista degli apprezzati Miss Marx e Chiara ma soprattutto, per ciò che mi riguarda, di Nico, 1988, commovente omaggio alla straziante parabola finale della meravigliosa e sfortunata Christa Päffgen (della quale si è occupato anche Massimo Palma nella bellissima biografia poetica Nico e le maree per Castelvecchi). Nel video il frontman e autore dei testi Giordano De Luca interpreta un marinaio fassbinderiano smarrito nelle assolate e stranianti periferie romane, creando un effetto insieme comico e malinconico. Una metafora centrata, proprio nella sua apparente bizzarria, dello spaesamento generazionale in questa bruttissima Belle Epoque.

Articolo Precedente

La voce come strumento musicale, quella di Demetrio Stratos

next
Articolo Successivo

A 25 anni dalla scomparsa di Fabrizio De André, nove punti per esplorarne l’indelebile eredità

next