La settimana scorsa Andrea Scanzi, nella sua quotidiana diretta streaming, ci ha riferito di sapere per certo che Giorgia Meloni nutre “un odio atavico, fisico, verso Conte”. Lo spunto per questa rivelazione (non propriamente segretata) era stato lo scontro in Parlamento del 12 dicembre, in cui la suddetta diede sfogo a tutta la sua ferocia borgatara inventandosi inesistenti responsabilità contiane nel via libera dell’adesione italiana al “famigerato” MES dell’Unione europea; per di più avvenuto “nel favore delle tenebre” (e con il contributo dell’infido Luigi Di Maio a mezzo fax, di cui Meloni era arrivata al punto di taroccare la data). Quel MES che – in effetti – era stato ratificato già nel 2011 dal quarto governo Berlusconi di cui faceva parte come ministra proprio l’attuale premier, in preda a monomaniacale furore conticida.

Riesploso in tutta la sua virulenza anche questa domenica, nel discorso di chiusura della kermesse Atreju (stavolta tirando in ballo – oltre all’odiato per eccellenza – anche la tenera e tutto sommato innocua Elly Schlein a far buon peso).

Va detto che si tratta di un’avversione nei confronti dell’avvocato leader del M5S condivisa da un po’ tutto il generone politico e giornalistico italiano (e, per analoghe ragioni d’invidia, persino dal garante del Movimento, l’elevato Beppe Grillo); ma di cui il sovraccarico emotivo/eruttivo meloniano riesce a mettere in piena evidenza le cause scatenanti. Per cui diventa necessario analizzare la (urticante) diversità dell’avvocato pugliese prestato alla politica. Operazione che – al di là di una certa simpatia per il personaggio, che ho spesso manifestato – credo di poter compiere, come diceva il poeta, “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”. Anche perché – quando nel 2022 ho recensito nella rubrica libraria che curo su MicroMega la biografia non autorizzata dell’allora premier – vi stroncai subito le ricorrenti piaggerie degli autori.

Al tempo stesso ho sempre contrastato le interessate perfidie di chi traeva condanne definitive dalle cadute d’inesperienza nella fase di apprendistato del professionista ingaggiato da due committenti – Di Maio e Salvini – per svolgere un ruolo mediatorio nel governo gialloverde; seppure con la carica formale di Presidente del Consiglio. Dopodiché – imparato rapidamente il mestiere – “l’avvocato degli italiani” si rivelò un’eccellente guida giallorossa nei terribili perigli di quegli anni. Dal lockdown al Next Generation EU. E, meritoriamente, non cedendo mai sulla questione MES; nonostante la canea degli esperti a tassametro e della stampa padronale che ne invocavano l’adozione, presunta salvifica. Tanto che questa fu la motivazione ufficiale della sfiducia al Conte II: l’operazione-killeraggio di Renzi per conto terzi, che aprì la strada alla restaurazione normalizzatrice di Mario Draghi.

Quindi, la pervicacia come colpa nel restare sempre fedele alla propria natura di corpo estraneo rispetto alla fauna che popola i palazzi nazionali del Potere, dalle sale di rappresentanza agli sgabuzzini. Nell’Italia incanaglita, quella scandalosa diversità che è sempre stata vissuta come intollerabile provocazione per la miriade di carrieristi che sbavano in attesa di essere cooptati nel club del privilegio; una minaccia per i signori del denaro che ne percepivano l’indisponibilità ai rapporti di scambio affaristici.

Insomma, in Giuseppe Conte, nei suoi modi garbati e cortesi, c’è sempre stato qualcosa di antico, tipico di una (minoritaria) civiltà borghese meridionale di stampo salveminiano, che si formava intellettualmente sulle pagine severe del Mondo di Mario Pannunzio ed Ernesto Rossi, poi dell’Espresso di Arrigo Benedetti; aggrappata alle tradizioni di rigore disinteressato e impegno pubblico, in via di sparizione nel degrado civile indotto dal consociativismo crescente nel blocco della politica e dall’affarismo di sempre. Un tipo umano di cui si sta perdendo la matrice. Magari sprovvisto di cultura economica, come palesato quando il suo governo promosse gli Stati Generali di Villa Pamphili affidandoli alla guida NeoLib di un AD Vodafone, sempre riconoscibile già nell’aplomb del gentleman (oggetto di irrisione con la menata della pochette – in realtà il candido fazzoletto a tre punte – da parte di un improbabile lookologo quale Massimiliano Panerari de la Stampa) di prammatica nello studio avvocatizio di buon rango (anche se a titolo personale gli consiglierei di evitare il cedimento modaiolo a pantaloni strizzati tipo tubo di stufa e da accorciare perché non si accartoccino sulla scarpa).

Frivolezze a parte, una presenza che rappresenta quanto è più lontano dal mondo di una borgatara sgomitatrice, in tailleur-pantalone da tappo della Val Gardena; l’idea di persona che suona a radicale contestazione del punto d’arrivo cui mira un tipetto in carriera come la post-fascista approdata ai salotti buoni di Bruxelles e di Washington. Sicché c’è ben poco di politico e molto di psicologico nell’incontenibile risentimento meloniano per chi risulta la smentita vivente di un percorso di carriera dalle cantine all’ostentazione da ripulita. Senza mai riuscire a cambiare quel suo tono di voce sciamannato e greve da comiziante vernacolare. Minacciata già dall’apparire di un’immagine signorile quanto estranea: un palese scontro di classe.

I nuovi Re di Roma

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