Tra le tante truffe argomentative, con cui questa nostra mediocrissima classe dirigente tenta di sviare le proprie inadeguatezze di fronte alle sfide del tempo, una delle più indegne e disoneste consiste nel dipingere la nuova generazione in campo (la cosiddetta “Z”; dopo quelle precedenti: Baby Boomer, Generazione X e Millenials) come una banda di fannulloni. Ragazze e ragazzi affetti da totale assenza di etica del lavoro. Polemica comunque a doppio taglio perché, ammesso e non concesso che gli e le under 30 si rivelino inveterati fannulloni, ci si dovrebbe chiedere chi abbia instillato loro i valori del poltronismo; conculcato il modello del facile successo a qualunque costo.

Tanto per cominciare possiamo osservare che i principi cardine della società industriale tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni novecenteschi – l’operosità borghese e il riscatto operaio; che si saldavano nella fierezza del “ben fatto” come rimessa a nuovo dell’antica tradizione artigiana – sono stati progressivamente emarginati dall’avvento del post-industriale; con la sua predicazione fondamentalistica di un individualismo darwiniano e solipsistico, funzionale alla messa fuori gioco di uno dei due contraenti del patto costituente dello Stato Sociale: il lavoro organizzato. Il tutto accompagnato dalla focalizzazione sul consumo dell’ordine neoliberista. Sicché il messaggio indirizzato alle nuove generazioni ritma la seducente promessa della liberazione dalla fatica e la conseguente entrata nel regno del Bengodi. Con i soldi facili creati dalla società dello spettacolo, in cui il successo non dipende più dall’applicazione e dallo studio, bensì dalla furbizia nel fiutare il vento; dall’abilità nell’intrufolarsi al seguito di qualche boss per raccattarne i favori.

Cosicché, già negli ultimi anni del secolo scorso, un’indagine tra gli allievi degli istituti tecnico-professionali nell’area tra Parma e Modena, dove proprio allora si andava riscoprendo una vocazione industriale nella meccatronica, indicava che, nella popolazione scolastica interpellata, i modelli di successo da perseguire erano quelli del “disk-jockey” per i ragazzi e della “velina” per le fanciulle. Se poi gli insegnanti provavano a illustrare le ragioni “altre” di un progetto di vita basato su competenza e studio, i loro studenti trovavano in casa genitori pronti a irridere (magari come alibi del proprio assenteismo genitoriale) quei docenti della scuola pubblica, rei di essere pagati un tozzo di pane. Del resto la macchina fatta esplodere dalla Mafia, su cui viaggiava Paolo Borsellino, era una modestissima 127, mica una fuoriserie.

Sicché cosa può valere il banale decoro di onesti (spesso ammirevoli) servitori dello Stato a fronte dell’immenso credito intercettato da personaggi “grandi firme”, arricchiti-non-si-sa-bene-come, quali i cuneesi al rum Daniela Garnero in Santanché e Flavio Briatore? L’ostentazione a livello parossistico, alla base di un successo diventato ascesa politica, del capofila nella mistica della scorciatoia quale Silvio Berlusconi; supportato da coorti di consulenti, ingaggiati per tradurre in scelte accaparrative il principio che la chiave del successo è la trovata. Tanto che il tycoon del Biscione, insediato a presidente del Consiglio, fanfaroneggiava sull’ennesima crisi Fiat (quando era ancora la prima industria italiana) proponendo la soluzione di rilanciarne le vendite rinominando la Panda “Ferrari junior”.

Per cui è risibile sentire il ministro – lui sì, fancazzista – concionare i giovani laureati perché vadano a lavorare nei campi. Tra l’altro scelta che costui ha evitato con cura di fare, preferendo buttarsi in politica. Ossia – come è stato detto – la pratica della “produzione di parole a mezzo parole”. Nel caso, l’ennesimo contributo alla grande menzogna dell’assenteismo di quegli sfaticati dei nostri figli e nipoti. A cui non sono offerte condizioni decorose di impiego, mentre i migliori tra di loro hanno già scelto la via dell’emigrazione. Dove il loro impegno lavorativo sarà premiato da interlocutori che garantiscono ben altre remunerazioni e sbocchi professionali.

Intanto si concretizza – nel bel mezzo della società dell’apparire e del menefreghismo spettacolarizzati – la fosca previsione di un grande maestro del ‘900, Cornelius Castoriadis: “il capitalismo ha potuto funzionare perché ha ereditato una serie di tipi antropologici che non ha creato: giudici incorruttibili, funzionari integerrimi, educatori consacrati alla loro vocazione, operai dotati di coscienza professionale. Questi tipi non sorgono da soli. Sono creati in periodi storici anteriori con riferimento a valori allora consacrati e incontestabili: l’onestà, il servizio dello Stato, la trasmissione del sapere, il lavoro ben fatto. Ora noi viviamo in società dove questi valori sono diventati oggetto di derisione; dove conta solamente il denaro che uno ha intascato, il numero di volte in cui è apparso in televisione”.

Articolo Precedente

La Repubblica è fondata sul lavoro: e la conoscenza? Così cambierei l’articolo 1

next
Articolo Successivo

L’uso del maschile sovraesteso rende invisibile la donna: ecco un piccolo esercizio

next