di Nicola Quondamatteo*

L’anno scorso, su questo giornale, la sociologa Chiara Saraceno interveniva per sottolineare l’immoralità dei tagli al Reddito di Cittadinanza operati da Meloni. Ripetuti attacchi alla misura simbolo di contrasto alla povertà sono approdati all’esito che conosciamo.

Ad ogni modo, anche se rimosso dall’agenda politica, il tema della povertà rimane centrale. Lo è anche quello della povertà lavorativa, cui l’introduzione di un salario minimo legale (boicottata dal governo) fornirebbe una risposta. In questo contesto, di pensiero critico all’altezza c’è urgente bisogno.

Un esempio assolutamente meritorio è il lavoro di Maristella Cacciapaglia. Nei mesi scorsi Meltemi ha dato alle stampe un prezioso libro, Con il Reddito di Cittadinanza. Un’etnografia critica, frutto di una ricerca svolta a Taranto per comprendere ciò che è stato il RdC oltre gli stereotipi.

Cacciapaglia sceglie l’etnografia come metodo di indagine capace di restituire voice a chi spesso ne è privo: i beneficiari della misura. Si è spesso parlato di loro nel dibattito pubblico, quasi sempre senza considerarne il punto di vista. Far emergere quest’ultimo introduce già di per sé una cesura. Questo studio è dunque utile perché colma un vuoto e riporta quanto esprimono gli altri attori coinvolti in questa partita: dai navigator alle imprese del territorio, anche se mancano i sindacati.

La scelta di situare lo studio a Taranto è anch’essa portatrice di un’istanza critica. Taranto è una realtà segnata dal conflitto tra lavoro e salute all’ombra dell’industria siderurgica. Ma è anche tanto altro: l’elevata disoccupazione (in particolare femminile), la fragilissima rete di servizi, l’assenza di opportunità per i giovani, tentativi di diversificazione economica non privi di criticità (“turistificazione”, lavoro povero ecc.). Partire da un territorio caratterizzato da tali contraddizioni aiuta a comprendere cosa il RdC è stato, quali necessità, bisogni e speranze ha intercettato in questi anni.

Il libro, in primis, fornisce un quadro teorico al cui interno leggere le trasformazioni del welfare di cui lo stesso RdC fa parte. Viene ricordata l’ambiguità dentro cui questo strumento di policy nasce: tenere insieme contrasto alla povertà e attivazione al lavoro. Un’ambiguità costitutiva, che ha fornito un involontario assist ai detrattori ma che è stata attenuata dalla realtà. Per eterogenesi dei fini il RdC si è trasformato principalmente in una misura di sostegno contro la povertà e la parte disciplinante è rimasta in parte inapplicata. Il carico workfaristico esisteva però nella legge.

Come ricostruisce Cacciapaglia, questo è un tratto comune a molte misure di assistenza sociale che – durante il periodo neoliberista – sono state in tutto l’Occidente condizionate all’attivazione e all’accettazione di lavori precari e sottopagati (es. i mini-jobs tedeschi). L’autrice rende conto di queste trasformazioni delle politiche sociali. Trasformazioni strutturali che hanno subito delle critiche, che hanno portato anche a parziali ripensamenti in alcuni paesi, fatto che avrebbe meritato un supplemento di riflessione: si fa qui riferimento alla Germania dove il governo attuale a guida socialdemocratica è tornato indietro sugli aspetti più disciplinanti di Hartz IV.

Venendo a Taranto, non si può che partire dal compianto giornalista Alessandro Leogrande, essenziale per l’autrice per leggere in profondità le contraddizioni della città. In Fumo sulla città Leogrande scriveva: “Tutto è stato proposto in nome dell’industrialismo, in nome di un’ipotesi di sviluppo elevata a dio infallibile e permaloso”. Lo stabilimento siderurgico per molto tempo è stato simbolo di lavoro sicuro ma anche fonte di nocività: una contraddizione che andrebbe esplorata alla luce del filone di ricerca accademica sull’ambientalismo operaio.

Fuori dallo stabilimento siderurgico, allo stesso tempo, si sono date poche traiettorie di occupazione stabile, con una borghesia locale che ha vissuto all’ombra dell’acciaieria senza una propulsiva capacità di investimento. Questo non ha potuto che avere un impatto generale, che si riflette anche nelle biografie dei percettori del RdC. La maggior parte di essi, spiega l’autrice, sono diplomati – titoli a volte conseguiti tramite corsi serali o all’interno di strutture carcerarie. Alcuni si sono fermati alla terza media, con carriere occupazionali che a quel punto si indirizzavano verso il lavoro informale nei pescherecci, ottenuto tramite reti familiari. Lavoro informale che però non garantisce certezze, specie in caso di problemi di salute – come un beneficiario ha spiegato all’autrice. Esiste poi una minoranza di laureati che non riesce a inserirsi in un mercato del lavoro locale privo di sbocchi.

Molti percettori vengono inoltre da periodi di disoccupazione, a volte conseguenza di processi di delocalizzazione. Tra loro anche ex imprenditori e titolari di attività commerciali che hanno chiuso i battenti sullo sfondo della recessione del 2008. Interessante è anche la composizione di genere che emerge dalle interviste realizzate da Cacciapaglia: chi ha rinunciato alla vita professionale dopo la nascita del primo figlio, chi non si è mai inserita nel mercato del lavoro extradomestico a causa di dinamiche familiari strutturalmente patriarcali.

Emerge infine una contraddizione sociale rilevante rispetto all’inserimento nel mercato del lavoro, una delle due gambe con cui la policy del RdC era stata disegnata. Pur non mancando esempi virtuosi che l’autrice cita, emerge dalla ricerca una forte differenziazione nella cosiddetta occupabilità tra soggetti giovani e relativamente formati (per i quali il RdC è stata una misura di accompagnamento che ha consentito di orientare la ricerca di lavoro verso professioni più attinenti alle proprie inclinazioni) e beneficiari più anziani, con bassi titoli di studio, con esperienze lavorative spesso informali e discontinue, difficili anche da certificare nel curriculum.

Lo studio contraddice inoltre la retorica del divano sulla quale si sono costruite le campagne di demonizzazione dello strumento di policy in esame. Molti beneficiari avevano infatti guardato al RdC con speranza, come a una sorta di viatico per ottenere finalmente un lavoro. Con “lavoro” – fa notare Cacciapaglia – queste persone intendono un lavoro a tempo indeterminato, con determinate garanzie. Grande è stata la disillusione di molti quando venivano proposti i soliti lavori precari (es. agricoltura) dal cui spettro speravano di liberarsi.

Pur di ottenere un lavoro con la “L” maiuscola, i beneficiari erano generalmente propensi a non problematizzare gli elementi workfaristici caratterizzanti il RdC. Altri beneficiari ancora non hanno mai ricevuto alcuna proposta di lavoro. Il reddito è stato però uno strumento di riscatto, concretizzatosi nella possibilità di poter gestire i propri soldi, nel sottrarsi all’umiliazione di chiedere prestiti a terzi, nell’avere accesso alle cure dentali.

Il libro mette quindi a nudo un dogma. Le politiche di attivazione al lavoro non sono risolutive di per sé del dramma della disoccupazione e dell’esclusione. Senza immaginare investimenti, politiche industriali e servizi universali è difficile pensare al riscatto di persone e territori. La discussione sul reddito dovrà avvenire a questo livello. Su quello che è stato, tra meriti e limiti. Su quello che sarà, se e quando la stagione del governo Meloni terminerà. Bisognerà parlare di contrasto alla povertà, di lavoro buono, di salario minimo, di specializzazione produttiva. Taranto può essere un laboratorio di osservazione privilegiato.

Cacciapaglia ha il merito di avere aperto un necessario dibattito, che ci auguriamo si arricchirà di ulteriori contributi.

*Assegnista di Ricerca in Sociologia del Lavoro, Università di Padova

Articolo Precedente

La parte più dura del dirigere un’azienda non è lo sviluppo del business, ma della leadership

next