Cinema

Morto Ryan O’Neal, l’indimenticabile interprete di Barry Lyndon e Love Story aveva 82 anni. Con la sua dolente romantica “legnosità” ha fatto la storia di Hollywood

O’Neal era un uomo oramai appartato e silenzioso da tempo, che aveva affidato nel 2012 alle sue memorie i segreti di un successo fulmineo e pieno, e che da vent’anni ha dovuto combattere con una leucemia e negli ultimi anni con un tumore alla prostata

di Davide Turrini

Addio Ryan O’Neal. Il celebre interprete di Barry Lyndon e Love Story è morto. Aveva 82 anni. Nei primi anni settanta O’Neal era stato l’attore più pagato e amato tra le star di Hollywood. In quel periodo di interregno tra il vecchio e il nuovo star system, O’Neal fu secondo in termini di popolarità solo a Clint Eastwood, ma davanti a Steve McQueen e Paul Newman o ai nuovi astri nascenti come Robert Redford, Burt Reynolds, Dustin Hoffman.

Figlio di genitori benestanti con discendenza irlandese e residenti a Los Angeles dove il padre si occupava di scrittura e sceneggiature, O’Neal si laurea e si dedica alla boxe, ma è quando si trasferisce in Germania sui finire dei ’50 che tenta timidamente di fare la comparsa in un film. Al ritorno pochi anni dopo negli Stati Uniti inizierà una breve trafile come attore di terzo piano in diversi telefilm e serie, per poi ottenere nel 1964 un ruolo di primissimo piano nello sceneggiato tv Peyton Place dove verrà affiancato peraltro da Mia Farrow e dalla sua sostituta, colei che diventerà la seconda moglie di O’Neal, Leigh Taylor Young. Da quel momento, grazie ad un fascino molto wasp, dal fisico atletico e muscoloso, ma anche dal viso candido e fragile, O’Neal brucia le tappe di una popolarità mondiale che lo vedrà protagonista di un exploit clamoroso e di un’altra manciata di film che entro metà degli anni settanta lo eleverà a divo di tutti i tempi.

La sorpresa è che sulla scia del successo in tv, O’Neal nemmeno trentenne nel 1970 viene preso per il ruolo di co-protagonista di Love Story, assieme ad Ali McGraw. Molti ricorderanno il romanticismo esasperato di fondo del film diretto da Arthur Hiller, come il vivido ritratto di una società classista (lui di famiglia ricchissima, lei famiglia di classe operaia) che si scioglie con l’amore e che funziona nella vita di tutti i giorni della costa Est degli Usa. Poi si sa, Love Story è anche il film della grande tragedia, di quel male incurabile che distrugge tutto. Come di quella frase, battuta di dialogo che porta alla chiusura di Love Story, già ripetuta più volte nel film dalla McGraw, con O’Neal che la fa sua e dice: “Amore significa non voler mai dire mi dispiace”. Love Story incassa 110 milioni di dollari in un amen, diventa il sesto film più visto nella storia, ottiene sette nomination agli Oscar (una anche per O’Neal) e si trasforma in una sorta di fenomeno culturale della lacrima romantico drammatica prima di Ghost e I ponti di Madison County.

Se non capiamo la popolarità di O’Neal in quell’istante non capiamo la sua carriera che sembra come compressa in poco più di un decennio. Due anni dopo centra la parte divertita e leggera, affiancando Barbra Streisand in Papà ti manda sola? (What’s up doc?), diretto da Peter Bogdanovich; e di nuovo nel 1973 ancora con Bogdanovich protagonista di Paper moon (film che vede lo storico produttore Frank Marshall proprio al suo esordio ufficiale) dove recita accanto alla figlia Tatum – figlia del primo matrimonio con Joanna Moore. Il film è un racconto molto chapliniano ambientato negli anni trenta con il protagonista, un piccolo truffatore che si accolla un’orfanella birbante in on the road durante la Grande Depressione.

La doppietta su grande schermo di casa O’Neal era stata rifiutata da Paul Newman e dalla figlia, ma porta alla piccola Tatum l’Oscar come attrice non protagonista diventando nella storia la più giovane attrice ad aver vinto questo premio. Tatum e Ryan torneranno in scena diretti da Bogdanovich nel 1976 in Vecchia America (Nickelodeon) ma in mezzo c’è la parte storico drammatica della vita che fa la storia del cinema. O’Neal è Redmond Barry, il contadinotto irlandese di metà settecento con velleità di scalata socio-economica nella nobiltà inglese che prova a ribaltare con lo spirito indomito e bugiardo del sentimento giovanile un destino segnato che poi si rivelerà di decadimento e disgrazia. Nonostante per la parte si fosse fatto il nome di Redford, O’Neal diventa la scelta di Kubrick che ne usa in maniera esemplare la sua “legnosità” e per certe versi mono espressività. Il film è un grande capolavoro calligrafico e spettacolare sì, ma deve parecchio a questa figura protagonista che si staglia nei quadri della storia con quella dolenza e malinconia da inevitabile perdente, come con quella vuota doppiezza da generico popolano, che l’attore ha celato fin dagli esordi nel proprio sguardo.

Difficile pensare di poter recitare altro dopo aver recitato con Kubrick (l’unico che ci è riuscito è Nicholson), tanto che O’Neal comincia la sua parabola discendente in termini quantitativi di film girati (ricordiamo nel 1978 l’ottimo The driver di Walter Hill), ma che mai si esaurirà nei decenni come popolarità. Anche perché O’Neal, grazie all’amico Lee Majors (L’uomo da sei milioni di dollari) conosce un’altra star del firmamento dello spettacolo statunitense, Farrah Fawcett, che di Majors era moglie: O’Neal se ne innamora, corrisposto, e la sposa delineando una storia lunga e intensa d’amore che si spezzerà e ricomporrà nei decenni a venire fino alla morte della Fawcett nel 2009. Per capire, infine, cosa sia significata e quanto sia bastata quella fiammata sessanta/settanta per O’Neal nella sua filmografia non troviamo granchè per decenni, anzi c’è proprio una volontaria lontananza dalle scene per poi riapparire in maniera egregia in un filmetto piccino che svela l’ipocrisia assassina e criminale del jet set culturale e politico americano. In People I known (2002) con protagonista un immenso Al Pacino, esausto e anziano p.r. a cui tocca gestire un intrigo tra spettacolo e politica addirittura mortale, O’Neal interpreta una sorta di ambiguo doppio di se stesso, tal Cary Launer, attore popolarissimo e democratico che sta pensando di candidarsi in politica e che chiede aiuto proprio a Pacino per gestire l’amante di turno che sembra essere troppo chiacchierona. Il film però si trasforma in un terrificante thriller dove mentre Pacino cerca di organizzare un incontro multietnico di raccolta fondi per Launer/O’Neal, quest’ultimo trama mefitico nell’ombra per chiudere i conti con il recente passato.

Che O’Neal a oltre settant’anni abbia accettato questo ruolo, dopo che per anni non aveva che timbrato il cartellino per qualche riunione tv sui vecchi successi, dice tanto di quest’uomo oramai appartato e silenzioso da tempo, che aveva affidato nel 2012 alle sue memorie i segreti di un successo fulmineo e pieno, e che da vent’anni ha dovuto combattere con una leucemia e negli ultimi anni con un tumore alla prostata.

Morto Ryan O’Neal, l’indimenticabile interprete di Barry Lyndon e Love Story aveva 82 anni. Con la sua dolente romantica “legnosità” ha fatto la storia di Hollywood
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